La recensione di Frozen River, il caso indipendente dell'anno

11 marzo 2009

Arriva nei cinema della penisola il caso “indie” dell’anno: esaltato da Quentin Tarantino, Frozen River ha conquistato il Gran Premio della Giuria al Festival di Sundance del 2008, ha ricevuto sei nomination agli Independent Spirit Awards (vincendone due) e due nomination agli Oscar. Ma quello scritto e diretto da Courtney Hunt, pur no...

La recensione di Frozen River, il caso indipendente dell'anno

Frozen River - la recensione

C’è poco di oggettivamente e tradizionalmente “sbagliato”, in Frozen River. La storia, pur nella sua convenzionalità, c’è e a modo suo funziona; le interpretazioni sono di buon livello (e la tanto celebrata Melissa Leo è effettivamente molto brava). Persino la regia dell’esordiente Courtney Hunt, pur con qualche incertezza, non è da buttare via. Tutto sembrerebbe filare, allora. Però. Però Frozen River è un film che sembra nato vecchio (e già stanco), legato a modelli di cinema indipendente (e non) passatisti e sorpassati.

Nel suo tratteggiare sia contenuti che aspetto formale, la Hunt si aggrappa ad un naturalismo quasi ossessivo, con il quale si cerca di far risaltare la condizione white-trash della protagonista (i trailer park, i problemi di soldi, il marito giocatore che è fuggito dopo l’ennesima perdita al tavolo verde) e la sua personale odissea di traghettatrice di disperati da un lato all’altro del confine statunitense, attraverso quel fiume ghiacciato del titolo che mira anche ad assumere valenze simboliche. I volti e le poche parole delle protagoniste, i loro difficili rapporti con i figli, i problemi di soldi, lo spaesamento degli immigrati illegali e il cinismo di chi ne gestisce i flussi: va tutto bene. Ma, per l'appunto, è tutto già visto e sentito, e soprattutto già raccontato con modalità analoghe.

Il problema poi è che- come spesso accade - l’ansia realista della Hunt, il suo aggrapparsi alla concretezza di volti ed eventi, tiene ancorato tutto il film verso il basso, impedendogli di uscire dai binari programmatici e prevedibili di un’estetica “da Sundance” canonica e canonizzata, che già da diverse stagioni puzza di stantio. E di conseguenza tutto il carico emotivo di Frozen River, che vorrebbe lavorare in maniera trattenuta e quasi minimalista, si fa al contrario pieno di tensioni retoriche. Come perfettamente esemplificato dalla scena da questo punto di vista più esplicita del film: quella del recupero di un neonato inopinatamente abbandonato nel corso di una delle “missioni” della protagonista. 

Ma questa retorica programmatica ed "impegnata", arriva anche a contagiare gli aspetti sulla carta più interessanti di un film come quello della Hunt, ovvero quelli legati ad un senso ampio e trasversale di maternità.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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