Free Solo: un film straordinario su un'impresa straordinaria compiuta da una persona straordinaria
Quando il gesto atletico, e il documentarlo, assumono sfumature filosofiche, mistiche e metafisiche. Al cinema in questi giorni e in tv dal 2 aprile, su Nat Geo Channel.
Arrampicare è una di quelle tante (troppe) cose che mi sarebbe sempre piaciuto fare ma che, per colpa di una terrificante pigrizia prima ancora di una non conclamata incapacità, non ho mai fatto. Ma anche avessi iniziato ad arrampicare ancora in fasce, una cosa è comunque certa: mai nella vita sarei stato in grado di fare quel che ha fatto Alex Honnold. Non solo perché lui è un atleta incredibile, e io chiaramente non lo sono; non solo per capacità fisiche e mentali incredibili: ma perché Alex Honnold non è una persona normale.
Attenzione, non è una cosa intesa in senso dispregiativo, ma è un dato di fatto dimostrato da Free Solo: quando racconta l’impresa che al centro di tutto (la scalata di El Capitain, 975 metri di arrampicata su una parete liscia e verticale senza corde di sicurezza né imbracature di alcun genere), ma anche il come e il perché Honnold ci sia arrivato.
Sta tutto lì, nel documentario che vinto l’Oscar 2019: il fatto che Honnold viva e si relazioni agli altri (anche alla sua fidanzata Sunni) in una maniera più che insolita, e che - tanto per fare un facile e scientifico esempio - abbia un cervello che funziona in modo diverso da quello di noialtri, con un’amigdala che per reagire ha bisogno di stimolazioni di molto superiori a quelle sufficienti alle persone “normali”.
Free Solo è un film straordinario, che racconta di un’impresa straordinaria (“una delle più grandi imprese atletiche di tutti i tempi”, l’ha definita il New York Times) compiuta da una persona straordinaria, laddove l’aggettivo va inteso nel suo significato figurato ma anche - appunto - letterale ed etimologico: che va oltre ciò che è normale, ordinario.
È un film che parla di una singola impresa e di come ci si è arrivati, certo, ma che così facendo, e seguendo l’agire e il pensare del suo protagonista, dissemina e fa esplodere lungo il racconto una serie di questioni da far venire le vertigini la testa, che toccano la morale e l’etica del cinema, così come la filosofia della vita, quotidiana e non, con una radicalità che non ha nulla da invidiare a quella del gesto atletico di Honnold, e una profondità mozzafiato che è quella che si potrebbe percepire guardando giù dallo strapiombo di El Cap.
Sono tantissime le questioni che vengono fuori davanti alla visione del film diretto da Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi, un film capace di pareggiare Carlito’s Way nel raccontare una storia dichiarando dall’inizio il suo finale, ma in grado di fartelo dimenticare, o ignorare, e a farti stare lì a trepidare con la pelle d’oca e le mani sudate e il batticuore per le sorti del suo protagonista (perché lo sai che Honnold non cadrà, che riuscirà a concludere la sua scalata a mani nude della parete di El Cap, seguendo la vai Freerider: ma le immagini, e tutto quello che c’è stato prima, sono così incredibili che non puoi non rimanere con gli occhi incollati allo schermo e il fiato sospeso).
Innanzi tutto c’è Honnold, e il mistero che si nascondono dietro agli occhi e al sorriso di questo ragazzo che pare un mash up tra Ayrton Senna e Lukas Haas, che è così chiaramente determinato, che ha sempre addosso una sorta di corazza e di protezione che impedisce a chi gli sta di fronte, perfino ai suoi amici più stretti e alla donna che ama e che lo ama, di arrivare davvero al suo pensiero e ai suoi sentimenti più profondi.
Honnold è un asceta. Magari casual, ma pur sempre un asceta, e non fa molto per nasconderlo. Sarà pure diventato quello che è diventato per via della sua storia familiare e della sua infanzia, come tutti noi (almeno questo...), ma il modo in cui esprime o non esprime i suoi sentimenti, e con cui ragiona dell’amore, dell’amicizia e della morte, è davvero qualcosa che colpisce per la spietata razionalità mescolata alla determinazione ferrea e qualcosa d’impercettibilmente ma nettamente soave e pacificato.
Poi c’è Sunni, che di Honnold è il controcampo, un controcampo in cui - in un modo o nell’altro - ci rispecchiamo. La persona normale che ha a che fare con lo straordinario: e sappiamo bene tutti quanto questa cosa possa essere difficile o dolorosa.
È difficile vivere con qualcuno che non sa esprimere i suoi sentimenti, che ridimensiona in maniera brutale la ricaduta emotiva della sua morte sugli altri, che è così ossessionato dai suoi obiettivi da mettere tutto il resto, e tutti gli altri, in secondo piano. “Sono paziente, ma ho anche rispetto per me stessa,” dice a un certo punto questa ragazza americana dagli occhi azzurri e i capelli biondi: come non comprenderla?
Ma c’è da considerare anche la lucidità tagliente di Honnold, cui non si può forse dar torto - non del tutto - quando dice che “tutti nella vita possono essere comodi e felici, ma niente di buono avviene nel mondo si si sta comodi e felici, nessuno può fare nulla di grande se rimane comodo e felice. Si deve essere dei guerrieri. Non importa necessariamente considerare la causa, questo è il tuo cammino e lo devi percorrere inseguendo l’eccellenza, e affronti le tue paure perché il tuo obiettivo te lo impone”.
E se la questione della convivenza del pensiero di Sunni (che insegue la felicità) e quello di Alex (che invece insegue l’eccellenza) qui è portata all’estremo dall’essere estremo di Honnold, all’interno di quello spettro si ritrovano in qualche modo tutte quelle legate alle dinamiche di coppia e di relazione del nostro mondo e della nostra vita.
Infine, c’è tutto il ragionamento etico-morale relativo all’immagine e al cinema, che viene messo apertamente sul tavolo della discussione quando Chin e i suoi collaboratori iniziano a porsi il problema di come il loro riprendere possa influenzare la scalata di Honnold, forse comprometterla. E quindi di come e se si possa stare lì a filmare qualcuno che potrebbe precipitare nel vuoto e schiantarsi in ogni istante, e quindi di come ci si possa e debba sentire a riprendere la Morte, e se esiste qualcosa in grado di giustificarlo.
Uno dei miei preferiti, tra i personaggi che appaiono nel film, è l’operatore che alla fine rimarrà ai piedi di El Cap, e immortalerà la scalata di Alex da lontano, con l’aiuto di un teleobiettivo potentissimo: a un certo punto non riuscirà più a guardare nel suo monitor, e si volterà dall’altra parte, mormorando “non farò mai più una cosa del genere”, per poi sbirciare di continuo per vedere cosa stia succedendo su quella parete. Perché di fronte a una cosa del genere attrazione e repulsione vanno a braccetto, e questa combinazione - lo sappiamo benissimo tutti, e da sempre - è il segreto dello spettacolo perfetto.
Eppure, tutto questo - che, ammetterete, non è affatto poco, né semplice - passa inevitabilmente in secondo piano di fronte alla bellezza assoluta e cristallina dell’impresa di Alex Honnold, e delle immagini che la immortalano.
Una cosa che, se non ci fosse questo film a documentarla, non ci si crederebbe.
Non si crederebbe alla capacità di Honnold di rimanere in vita aggrappato a sporgenze che la maggior parte di noi sarebbero incapaci perfino d’individuare, e di compiere qualcosa di fisicamente e psicologicamente impressionante con una semplicità zen, tanto è essenziale e misteriosa.
Non solo, una volta in cima, Honnold si limita solo semplicemente a sorridere a dire “I’m so delighted”, come se avesse compiuto un’attività sì impegnativa, ma in fondo banale e quotidiana (e se poi ammette al telefono con Sunni di sentirsi vicino alle lacrime, di lacrime nei suoi occhi non ce ne sarà mai nemmeno l’ombra); ma perfino durante è capace di rivolgere sorrisi e commenti alle telecamere fissate lungo il suo percorso, manifestando così la capacità di mantenere lo spirito e la mente leggeri anche nella concentrazione più assoluta.
Allora non so, ma ho l’impressione che - non solo per il fatto di aver sfidato la morte in maniera così pura e consapevole, così diretta e mai sfacciata e volgare, ma soprattutto per il modo e lo spirito con cui lo si è fatto - la scalata di Honnold sia quanto di più simile ci possa essere oggi alla rappresentazione concreta e pratica del desiderio umano dell’ascesa verso qualche forma di Paradiso, o di Nirvana; e Free Solo il testo che, cercando di usare gli stessi strumenti fisici e mentali di Alex, è stato capace di raccontarla in tutta la sua complessità e la sua mistica.
Anche perché quell’ascesa, per Honnold, non è solo desiderio, ma successo e conquista. E allora, davvero, Free Solo è il racconto affascinante, spaventoso e spettacolare della sconfitta della morte, del raggiungimento dell’eternità e di qualcosa di trascendente e metafisico.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival