Foxcatcher - la recensione da Cannes del film di Bennet Miller

19 maggio 2014
2.5 di 5
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Dopo Capote e Moneyball, un altra storia realmente accaduta per il regista americano.

Foxcatcher - la recensione da Cannes del film di Bennet Miller

Nel 1987, l'eccentrico e sbilanciato miliardario John E. du Pont volle rispondere alle sue frustrazioni personali e familiari chiamando un campione olimpico di lotta libera (dalle non eccelse capacità sociali) alla sua corte, offrendosi di fargli da mentore e mecenate tramite la sua neonata squadra sportiva.
All'arrivo di Mark Schultz, fece seguito anche quello di suo fratello Dave, anche lui lottatore e allenatore, ma l'avventura dei due presso la residenza di du Pont non è stata fortunata.

È questa la storia che racconta Bennet Miller in Foxcatcher, riprendendo lo stile freddo e dilatato del suo Capote e alcuni dei temi di Moneyball, come il rispecchiasi della storia e della cultura americana all'interno di vicende sportive.
Miller ha infatti l'ambizione di fare della storia vera di du Pont e dei fratelli Schultz una parabola sull'America: quell'America dominata dal denaro, che abbandona i propri figli, i propri eroi, lasciandoli andare soli e alla deriva, verso fini ingrate, tragiche, squallide.

John du Pont (uno Steve Carell quasi irriconoscibile sotto un trucco che lo rende somigliante a Riccardo Rossi) e Mark Schultz (Channing Tatum, al solito capace di far tesoro della sua fisicità) sono ai poli opposti dello spettro socio-economico, ma sono accomunati dalla solitudine e dall'insoddisfazione: il primo rampollo di una famiglia che lo ha castrato e soggiogato, e alla quale cerca di rispondere a modo suo; il secondo figlio di genitori separatisi prestissimo, cresciuto col solo fratello in giro per gli stati, eroe olimpico trascurato da tutti.
E du Pont, la cui famiglia degli States ha fatto la storia, e che si fa soprannominare Golden Eagle, non vuole che gli eroi americani vengano dimenticati, e vuole riscattare e proteggere Mark riscattando così sé stesso.

Quello che il miliardario però non comprende, però, è l'impossibilità di acquistare ciò che va conquistato con altri mezzi, di modellare qualcuno su di sé o costruire una relazione reale senza mettersi in gioco in prima persona.
Solo l'affetto fraterno e l'integrità di fronte alla necessità di Dave può salvaguardare Mark, e lo farà a caro prezzo: perché du Pont, dell'America, è l'espressione più classista e sfrangiata, quella del con me o contro di me, quella che compra lo spettacolo della propria soddisfazione, incurante del prezzo pagato da altri; proprio come gli spettatori di uno show di lotta nel finale che acclamano "USA, USA" al salire in scena, mercificato, del personaggio di Tatum.

Optando per una messa in scena plumbea, su tempi esageratamente lenti e poche parole, Miller cerca di enfatizzare i sentimenti potenti e silenziosi che animano la sua storia: ma se le sue riflessioni tematiche appaiono un po' stantie, la cura per la forma rasenta un manierismo che amplifica il distacco dello spettatore.
A barcamenarsi, sullo schermo e nella storia, Mark Ruffalo, interprete di Dave, il simbolo positivo degli affetti e degli States, integro ma mai ingenuo, capace di compromesso senza perdere di vista i suoi valori.
Ma anche l'ottima interpretazione dell'attore rimane vittima, come proprio come il suo personaggio, della gravità della situazione e del racconto.




  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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