Flight Risk, la recensione: eravamo io, un testimone di mafia, e un pilota killer psicopatico

22 aprile 2025
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Mel Gibson torna alla regia con un thriller d'azione dal sapore antico, ma proprio per questo capace di funzionare al netto di una sceneggiatura sciocchina. La recensione di Flight Risk di Federico Gironi.

Flight Risk, la recensione: eravamo io, un testimone di mafia, e un pilota killer psicopatico

La premessa di Flight Risk è nota: un contabile della mafia italoamericana (Topher Grace) viene arrestato da una U.S. Marshall (Michelle Dockery) in un alberghetto nel nulla dell’Alaska, e il primo tratto del viaggio che lo porterà sul banco dei testimoni in un tribunale di New York è quello che, a bordo di un piccolo aereo a elica, deve fare per raggiungere l’aeroporto di Anchorage. E il pilota di quel volo (Mark Wahlberg) non è un semplice pilota ma un killer pagato dal boss di turno che deve tappare per sempre la bocca a quel contabile.
Affinché non solo il testimone, ma anche l’agente che lo scorta capiscano che il pilota è in realtà qualcuno che vuole farli fuori, dall’inizio del film passano venti minuti spaccati. Se calcoliamo che, per breve che sia, il film di Mel Gibson ne dura complessivamente novanta, rimangono settanta minuti da riempire fino alla fine del film, ovvero all’atterraggio di quel piccolo velivolo e alla (ovvia) conclusione della vicenda. Non sono pochi, settanta minuti da gestire così, con tre soli personaggi tutte e tre nello spazio angusto di Cessna. Eppure, filano che è una bellezza. Magari le sorprese non sono tante, e il copione che il film segue è abbastanza formulaico, ma come thriller d’intrattenimento vecchio stile, Flight Risk funziona eccome.

D’altronde, va detto: Mel Gibson, il Mel Gibson di Arma Letale, sa bene di cosa si stia parlando. E Gibson, il Gibson regista, è uno che il cinema, piacciano più o meno i suoi film, lo sa. Quindi non sorprende che il copione di Jared Rosenberg, modesto ma legato a un cinema oramai quasi fuori moda, nelle mani di uno che quel cinema, e il cinema in generale, lo sa, sia diventato un film non eccelso né indimenticabile ma sicuramente godibile (ben più di quanto in America, per ragioni probabilmente ideologiche e legate al nome del regista, non si sia detto e scritto).
E lasciate state quelle due brutte CGI dei primi secondi di film, perché non torneranno più e non è questo il punto. Perché in qualche modo Flight Risk è il film che nasce dall’incontro tra Airport e Con Air, se questi due genitori non fossero stati blockbuster a alto budget e dal cast chilometrico ma produzioni indipendenti, a basso budget e con sostanzialmente tre soli attori.

Grace, Dockery e Wahlberg si divertono un sacco, e si vede. Wahlberg soprattutto, nei panni di un personaggio sopra le righe senza esserlo veramente, uno che non è solo un killer della mafia, ma un vero bastardo psicopatico come in certi film di qualche decennio fa, che non fa mistero del fatto di voler torturare e seviziare a turno quelle che pensa essere le sue due vittime prima di lasciarle morire.
Va a finire ovviamente che l’agente della Dockery - personaggio con un passato che conta, in termini di caratterizzazione psicologica - si rivela un osso assai più duro del previsto, e perfino il pavido contabile di Grace è uno tutto sommato in grado di fare la sua parte. E la dinamica per la sopravvivenza, che riguarderà non solo quella dallo scontro o dagli scontri col killer, ma anche con la questione assai poco accessoria di fare volare il Cessna e ancor più di farlo atterrare, finisce con l’essere gestita assai bene nel corso di quei settanta minuti di cui si diceva.
C’è pure una codina, magari scontata ma funzionale, nel momento in cui rocambolescamente l’aeroplanino tocca terra a Anchorage. E Gibson sarà anche quello delle dichiarazioni politicamente e umanamente controverse, ma la voce che guida via telefoino Dockery nel pilotaggio del Cessna non è affatto caucasica. Sarà un caso?



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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