Ex Machina: la recensione del primo film da regista di Alex Garland
Lo scrittore racconta una storia di manipolazione, tracotanza umana e intelligenza artificiale.
E’ una fantascienza da acquario quella che Alex Garland sceglie di tentare nel suo primo
film, che arriva dopo una serie di romanzi e qualche sceneggiatura cinematografica; una
fantascienza "da camera" in un certo senso, perché confinata
all’interno di una casa high tech piena di stanze senza finestre, di vetrate e di
corridoi che stanno fra Kubrick e Guerre
stellari.
Nell’immensa “vasca” sono
immersi pesci di varie specie: un genio malato di hybris,
un’intelligenza artificiale con il corpo di un cyborg e il viso e il cuore di donna, un
giovane programmatore incaricato di fare un test di Touring. Muovendoli come un
burattinaio, il neo-regista si compiace della propria abilità di costruire trame e si
crogiola nel piacere di creare un gioco d’inganni con cui solleticare la
curiosità maliziosa e voyeuristica del pubblico, che s’identifica ora con
l’uomo, ora con la sua replica digitale.
Esperto organizzatore di storie che beneficiano della tensione
claustrofobica dell’unità di luogo, Garland sa cosa fare
e, contemporaneamente al dipanarsi della vicenda, segue diverse piste tematiche, alcune
più attuali e quindi urgenti, altre antiche come il genere cui
Ex Machina appartiene.
Lo spunto più
importante è certamente la manipolazione: dei sentimenti, delle informazioni, delle
scelte. Che ad attuarla sia un motore di ricerca, una creatura meccanica o un essere
umano, poco importa. Ciò che conta è la constatazione che, trincerati dietro
una solitudine "elettronica" che possiamo riempire con ogni cosa, noi uomini del
terzo millennio siamo diventati più fragili e vulnerabili che mai, più inclini ad
"andare in crash" come fossimo vecchie macchine imperfette. E’
naturale quindi che le macchine che non sono state create dal buon Dio (o chi per lui) siano
più avanti di noi e che ci superino in astuzia, calcolo, coscienza di sé e
soprattutto sentimenti.
Già, perché Ex Machina
è anche una storia d’amore fra un robot con un’anima e
un’anima vestita di carne e di ossa che i robot li studia e li ammira.
Non
staremo qui a elencare gli illustri precedenti cinematografici di queste dinamiche, che
vanno da Blade Runner a Her
. Ci basti dire che, nonostante la bellezza di Alicia Vikander, la sua Ava
non ha certo la sensualità del computer raccontato da Spike
Jonze e che nemmeno la tenerezza che emana dagli occhi di Domnhall Gleeson spinge il film in una direzione
di romanticismo. Lo stiloso divertissement dell’autore di "The
Beach" finisce infatti per essere contaminato
dall’asetticità e glacialità del luogo in cui è ambientato.
Tutt’altro che algidi sono invece i tre attori protagonisti, a cominciare da Oscar Isaac, che rende particolarmente gustosa l’eccentricità di un cervellone spesso ubriaco ma sempre all’erta. Anche la partita a poker che i loro personaggi giocano bluffando è accattivante, peccato che la suspense accumulata si risolva in una conclusione caotica e frettolosa.
Senza svelare il finale del film, ci teniamo a dire che abbiamo amato il vento femminista che agita le sue ultime sequenze, se di femminismo si può effettivamente parlare. Diciamo che le donne la loro zampata la danno, alla faccia di chi tenta di ridurle a oggetti , siano essi di piacere o di studio.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali