Everest: la recensione del film che ha aperto il Festival di Venezia 2015
Racconto d’avventura, catastrofe e umanità di quelli che Hollywood produceva tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta
Letterale, come il suo titolo, Everest, nome carico di suggestioni e dell’idea stessa del limite, dell’estremo. Il film di Baltazar Kormákur, che racconta la vera storia di una disastrosa spedizione sulla vetta più alta del mondo, costata la vita a otto persone, avvenuta nel 1996 e raccontata da un testimone oculare come il giornalista Jon Krakauer (lo stesso che ha raccontato la storia di Christopher McCandle diventata Into the Wild), è letterale. Quasi felicemente cronachistico.
Nel film dell’islandese le metafore stanno a zero, e quello che vedi è quello che è (stato): non ci sono tirate para-herzoghiane sulla sfida dell’Uomo alla Natura, né quelle post-capitaliste che avrebbero potuto puntare indici accusatori sulla cosiddetta “commercializzazione” della montagna più alta del mondo: la spedizione di Everest, infatti, era una di quelle organizzate da società specializzate nel guidare ogni anno esperti alpinisti fino alla vetta, ovviamente a pagamento; e lo stesso Rob Hall - protagonista del film, interpretato da Jason Clarke - è stato uno dei primi a inventarsi questo nuovo sistema per generare profitto attraverso la passione per la montagna.
Ma Kormákur, dicevamo, non è interessato al superomismo romantico, o all’idealismo politico-economico: a lui basta raccontare una storia, tratteggiare dei personaggi, inquadrare panorami grandiosi; e non pensate sia poco. Il suo è un film fieramente classico, un racconto d’avventura e umanità di quelli che Hollywood produceva tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, un catastrofico senza troppe catastrofi se non quella di un errore umano costato caro a chi l’ha commesso e di una variabile meteorologica che chiunque vada per montagne sa di dover mettere in conto.
Nemmeno dalla passione idealistica per l’alpinismo, l’islandese si fa contagiare troppo: la retorica sul “perché” di un istinto come quello di chi scala vette tanto estreme viene anche evocata, ma rimane sullo sfondo delle dinamiche e dei meccanismi pratici: quelli del gruppo, della spedizione, dell’alpinismo.
Everest diventa allora, se volete, anche un film sull’agire dell’uomo in società: una società ristretta come quella di un gruppo di persone alla conquista della cima più alta del mondo, ma pur sempre una società fatta di legami, interdipendenze, collaborazioni e momenti di piccolo o grande egoismo. Sul prezzo pagato dagli altri per i nostri errori, e viceversa. Sulle grandi conquiste e i piccoli ma fondamentali momenti di generosità che quelle conquiste permettono e che vite salvano.
Ma, dato che la montagna è anche silenzio, asprezza, essenzialità, Everest evita le selve della retorica o la svenevolezza balneare, lasciando che i sentimenti rimangano trattenuti e rocciosi, e le lacrime non siano fiumi in piena ma rivoli appena accennati, provenienti da stalattiti di ghiaccio che si sciolgono lentamente.
Col supporto indispensabile di un cast nutrito e solidissimo (Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Elizabeth Debicki, Josh Brolin, John Hawkes, Robin Wright, Sam Worthington, Keira Knightley, Emily Watson e Martin Henderson: in Everest si fa squadra anche in questo, e non esistono solisti), Kormákur cerca e trova l’equilibrio tra magniloquenza scenografica, grandiosità del gesto e fragilità dei sentimenti, raccogliendo i frutti del suo lavoro suscitando la composta commozione derivante da un amore mai urlato e da un nome di bambina che vuol dire futuro.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival