Ema: recensione del film di Pablo Larraín in concorso al Festival di Venezia 2019
Un film venuto dal futuro. Una protagonista caduta sulla Terra.
L’impatto è spiazzante. E travolgente. Perché Ema sembra un film venuto dal futuro, che piomba nelle nostre vite per sconvolgerle, per mettere in crisi tutti i nostri dogmi, le nostre convenzioni, per scuoterci dalle nostre abitudini e farci ricominciare a vedere il mondo, il cinema, la vita da nuovi punti di vista. Con una sete rinnovata.
Ema fa allo spettatore esattamente quello che fa la sua protagonista - che si chiama nello stesso modo, tanto per rimarcare l’identità - alle persone che le stanno vicino e che incontra. Una ragazza caduta sulla terra, una David Bowie cilena in salsa reggaeton, che irrita, provoca, attrae, respinge, fa innamorare, incendia, separa e riunisce. Che scombina le cose, infiamma il mondo e getta scompiglio nelle le relazioni, come un virus anarchico e incurante, per poi ricombinare, spegnere e rimettere a posto a modo suo: che poi è comunque il modo dell’amore.
Ema ha fatto diventare etero il coreografo omosessuale Gastón, diventato suo marito, e farà innamorare di sé una donna che sedurrà per portare a termine il suo piano rivoluzionario: riconquistare una maternità perduta, un bambino abbandonato, ma a modo suo.
Ema non è stata capace di fare la madre, né Gastón il padre, ma solo perché adeguarsi alle regole e ai ruoli della famiglia come tradizione e società intendono, non poteva fare per lei. Ema si muove, sempre. Si muove sinuosa e morbida e seducente, ma non si adatta al mondo né è capace di compromessi: la sua è una carica vitale ed erotica eversiva, deflagrante, capace di far adattare il mondo a lei.
Le splendide immagini scelte e isolate da Pablo Larraín per raccontare la sua storia e la sua protagonista sono uno specchio di quel contenuto, capace anche di regalargli nuove profondità e ulteriori sfumature. Il mistero di Ema è quello del suo andamento: ellittico, rapsodico, contrario senza aggressività alla narrazione tradizionale.
Larraín conduce all’interno di un labirinto costruito appoggiandosi alle strade, alle case e al mare di Valparaiso, e alle intenzioni segrete della sua protagonista, alle sue costanti contraddizioni verbali ed emotive. Poi, col montaggio e col sonoro, col ballo e con la musica elettronica, fa perdere ancora di più ogni punto di riferimento, spingendo verso una deriva sensoriale mai davvero fine a sé stessa.
Come Ema, è capace di essere superbo, e irritante. Come Ema, è non sempre risolve tutto come dovrebbe, e non evita impacci e irritazioni lungo il percorso; ma come lei è capace di portare il film, e lo spettatore, lì dove vuole lui. Perché come Ema osa, e vince.
Ema, Valparaiso, Pablo Larraín, Mariana Di Girolamo. Film, immagini, luoghi, volti, stili, musiche e look provenienti dal futuro. Un futuro prossimo, che forse è già qui, e che questo film non fa altro che svelarci nella sua dirompente presenza. Di certo loro - questo film, questo regista, questi attori - sono qui tra noi. Un passo più avanti, magari, ma qui tra noi. E sono certezze (o dissoluzioni di) con cui dobbiamo fare i conti.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival