Stonehearst Asylum - la recensione del film di Brad Anderson
Presentato nella sezione Mondo Genere al Festival di Roma
Di follia e malattia mentale, Brad Anderson aveva già parlato in maniera nel suo notevole Session 9. Ma della mente e delle sue distorsioni, delle illusioni della realtà, il regista americano si è occupato anche ne L’uomo senza sonno, in Transsiberian, perfino in Vanishing on 7th Street.
L’arrivo di Stonehearst Asylum, allora, è un passaggio quasi ovvio nella sua carriera, un’incursione obbligata in quel gotico venato di romaticismo di cui l’Edgar Allan Poe autore del racconto su cui il film è vagamente basato (“Il sistema del dr. Catrame e del prof. Piuma”) è stato indiscusso maestro.
Curioso che un film come quello di Anderson, ambientato nei giorni immediatamente antecedenti il capodanno del 1900, arrivi praticamente in contemporanea con The Knick, che si svolge proprio in quel fatidico anno: e che, prendendo spunto dal racconto di Poe, parli a suo modo di quella stessa difficile evoluzione della scienza medica di cui si parla nella serie tv di Steven Soderbergh.
Sotto l’abito di genere, e depurato dalla trama romantica che unisce il protagonista Jim Sturgess alla Eliza Graves di Kate Beckinsale, Stonehearst Asylum parla di due approcci alla medicina psichiatrica e della sua pratica in modo significativo da un punto di vista storico e forse anche relativamente all’oggi: perché la compassione e l’umanità, il rispetto per la dignità, sono valori sanissimi e senza tempo.
E la rappresentazione della follia come eccesso o estremo in qualsiasi direzione questo vada, della sanità da ritrovarsi solo nell’equilibrio non necessariamente ortodosso e nell’amore, sono temi che Anderson presenta in modo mai pedante.
Vero però è che un film come Stonehearst Asylum non ha l’ambizione di prestarsi a troppe interpretazioni, o a ragionamenti troppo strutturati sui suoi temi, preferendo abbracciare in pieno la sua natura di intrattenimento di genere.
Anderson, conscio delle origini letterarie della sceneggiatura, sembra anzi ricercare lo spirito e lo stile dei celebri adattamenti cormaniani della letteratura di Poe, e perfino di certe produzioni di Val Lewton, adattandoli alla sensibilità e alle possibilità contemporanee ma rimanendogli fedele nello spirito.
Il regista filma con stile morbido e qualche misurata concessione al virtuosismo un film che si appoggia su un gran lavoro di scenografie e costumi, e ancor di più su un ottimo cast nel quale, più della citata coppia Sturgess-Beckinsale, funzionale ma un po’ ingessata, svettano Ben Kingsley, David Thewlis, Michael Caine e una giovane di cui sentiremo certamente parlare come Sophie Kennedy Clark.
Affascinante nella parte iniziale e in quella centrale, dove gli aspetti più gotici e sordidi la fan da padroni, e la tensione del rapporto tra il giovane medico di Sturgess e il primario folle e illuminato di Kingsley genera tenui scintille, Stonehearst Asylum si complica un po’ le cose da solo quando fa emergere sempre di più che il suo vero fulcro d’interesse è la storia d’amore, e in un finale dove i capovolgimenti e i colpi di scena son troppi oppure scontati.
Scivolate, concessioni all’ineluttabile lieto fine gradito a pubblico e produzioni, che però conservano un sottile filo d’ironia che serve a Anderson a non prendersi poi troppo sul serio, e che non intaccano più di tanto la struttura di un film non indimenticabile ma onesto nelle sue intenzioni e nell’intrattenimento che regala.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival