El Paraìso: la recensione del film di Enrico Maria Artale con Edoardo Pesce

31 maggio 2024
3.5 di 5

In concorso nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura e per la protagonista, arriva al cinema El Paraìso. La recensione di Daniela Catelli.

El Paraìso: la recensione del film di Enrico Maria Artale con Edoardo Pesce

Esiste un cinema italiano diverso, fatto da registi sotto i quarant’anni, al loro esordio ma anche al secondo o al terzo film, che offre uno sguardo originale, diverso da quello del cinema mainstream o degli autori conclamati, ma che fatica ad arrivare al pubblico nonostante i successi e i premi riscossi ai festival dove queste opere vengono presentati. Su due piedi, e solo di recente, ci vengono ad esempio in mente i nomi di Salvatore Allocca, Fulvio Risuleo (anche valente fumettista), Davide Gentile, Davide Minnella, Gianluca Santoni, e sicuramente ne dimentichiamo qualcuno. Anche Enrico Maria Artale rientra nella categoria, visto che El Paraìso è il suo secondo lungometraggio di finzione, dopo Il terzo tempo, realizzato quando on aveva ancora trent'anni. Sono, dicevamo, tutti giovani autori diversi tra di loro, ma che hanno il coraggio di raccontare le storie che vogliono e hanno poi la costanza, in molti casi, di accompagnare il film nelle sale in tour per tutto il paese, quasi in un rapporto “dal produttore al consumatore”, che ha un sapore antico di cose buone. Edoardo Pesce, uno di quegli attori nati per fare questo mestiere e che non deludono mai, è un interprete generoso che spesso dà fiducia al talento dei suoi coetanei, che scrivono per lui ruoli diversi ma che sembra sempre gli siano cuciti addosso, tanto ci si immerge: come quello di Julio Cesar, un bambinone quarantenne che vive in un non luogo a metà tra Fiumicino e la Colombia, assieme a una madre ebbra di vita e cocaina, con cui si accompagna nelle sale da ballo specializzate in musica sudamericana.

Non sappiamo niente (e scopriremo che ne sa pochissimo anche lui) di questa donna bella e un po’ folle, arrivata incinta in Italia e tuttora senza documenti, che ha col figlio un rapporto di co-dipendenza talmente forte che l’arrivo di Inès, una giovane e affascinante ragazza colombiana che sostituisce il fratello in un trasporto di droga, scuote alle fondamenta il loro rapporto, scatenando una gelosia possessiva in lei e il sogno di un amore e di una vita più libera in lui. Il conflitto esploderà cambiando per sempre le cose, e dando a Julio Cesar l'idea folle di recarsi in Colombia a cercare El Paraìso, dove la madre gli ha sempre detto di essere nata. Julio Cesar è un uomo adulto che non ha mai tagliato il cordone ombelicale e quando è costretto a farlo non sa come muoversi. Non lavora, ma vive coi proventi dello spaccio e della lavorazione della cocaina di cui si occupa la madre e la sua comfort zone è quella di un bambino o di un vecchio: prendersi cura di una donna malata, che esagera con l’alcol e la droga, passare le serate con lei a vedere film davanti alla tv o a ballare la salsa e fare sesso a pagamento. Il rapporto con la madre, che lo adora ma non perde occasione per sminuirlo, lo soffoca e i loro conflitti risultano molto credibili.

Artale ha la capacità di creare un sotto mondo che non esiste nella realtà ma potrebbe essere ovunque, e in cui mette a frutto, dandogli i colori e i ritmi giusti, la sua conoscenza personale della Colombia e della sua cultura. Il rapporto edipico ed estremamente conflittuale madre/figlio è reso in modo estremamente plausibile non solo dalla bravura degli attori (di Pesce abbiamo detto, Margarita Rosa De Francisco è stata premiata per la sua interpretazione a Venezia), capaci di passare dalla tenerezza e dal gioco alla rabbia e all'insulto feroce, ma anche perché fondato, pur nelle differenze individuali di classe e di educazione, su sentimenti che accomunano molti rapporti genitori/figli: scontri violenti, amore incondizionato e sensi di colpa divoranti. El Paraìso ha il grande merito di non prendere mai strade battute, non è una storia di narcos dove la violenza è inevitabile, e a distinguerlo da altri film c’è anche la svolta che avviene a un certo punto della storia e che ovviamente non vi raccontiamo. Quando Julio Cesar esce dalla carreggiata, noi lo seguiamo, insicuri su dove stiamo andando e a disagio con le sue azioni. Il film a questo punto avrebbe potuto diventare grottesco e perdere l’empatia dello spettatore. Ma non lo fa, e anche questo è un merito non indifferente di questa storia meticcia, che parla e mescola lingue e culture diverse, aperto al mondo come il suo finale, che ci invita a guardare oltre i confini che noi stessi a volte ci tracciamo.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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