È stato il figlio - la recensione del film di Daniele Ciprì

01 settembre 2012
3.5 di 5
10

Esordio solista dell'uomo che, con Franco Maresco, ha inventato Cinico Tv e che è anche uno dei migliori direttori della fotografia italiani. Da un romanzo di Roberto Alajmo



Inventore, con Franco Maresco, di Cinico Tv, nonché uno dei migliori direttori della fotografia in Italia, Daniele Ciprì esordisce dietro la macchina da presa "in solitaria" con un film che tradisce in maniera evidente il suo curriculum: ma, invece di essere una tara come spesso avviene, questo è un dato nettamente positivo.
Perché, adattando il romanzo di Roberto Alajmo, firma un film formalmente ricercato e riuscito senza essere lezioso e formalista, e che fa del grottesco e del cinismo delle lenti sensibili ma mai deformanti, in grado di trasmettere un’umanissima empatia per i protagonisti e le traversie che devono affrontare.

È stato il figlio è molte cose, spesso diverse tra loro. È una tragica saga familiare, è un film sull’ombra ansiogena e sanguinosa della mafia, è un film sull’Italia di allora, gli anni Settanta, ma ancor di più di oggi. È un film sullo storytelling, costruito com’è a scatole cinesi, con un narratore (che si è andati a pescare in Cile, è l’Alfredo Castro dei film di Pablo Larrain) che racconta storie che diventano la storia del film, e di cui lui diventerà protagonista. Con l’andamento del sogno, o dell’incubo, a seconda dei casi e dei momenti, è stato il figlio mette alla berlina le miserie materiali ed esistenziali dei suoi personaggi e degli italiani, declinando con forme moderne e goticamente esasperate la lezione della miglior commedia all’italiana, che criticava senza falsi moralismi né strizzate d’occhio, ma era in grado di amare profondamente l’umanità che raccontava.

Mettendo in scena una spirale impazzita di violenze e desideri, di megalomanie e di egoismi, Ciprì racconta - non senza errori e qualche scivolone ma con implacabile chiarezza - il dramma di una generazione che si ripete nella sua incertezza, nella sua immobilità, nell’oppressione e nell’impossibilità di evitare che la colpa dei padri (e delle madri, e delle nonne, e dei cugini) si riversi tragicamente su di lei.
E la chiusura di desolante metafisicità e di inquietante realtà è, al tempo stesso, raggelante e bellissima.


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  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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