E poi c'è Katherine: recensione della commedia con Emma Thompson
Una versione post #MeToo de Il diavolo veste Prada che ci porta nel mondo dei late show.
Cominciamo col dire che E poi c'è Katherine non è propriamente una rom-com, come alcuni l'hanno definita. Di "rom" questo film al femminile ma non necessariamente femminista ha ben poco, visto che il "romantic lead" in questione si barcamena fra due pretendenti e fa una pessima figura. Quanto al "com", non solo si ride, ora di gusto, ora con eleganza, più spesso in maniera amara, ma si entra addirittura nella bottega, nella fabbrica dove "si costruisce" la comicità, quella particolarissima e squisitamente contemporanea dei magnifici late night host, presentatori e nello stesso tempo attori, polemisti e insieme smaglianti intrattenitori, talenti come Jimmy Kimmel e James Corden, insomma, che presentano i late night show, che sarebbero i talk show che vanno in onda in seconda serata. Noi abbiamo E poi c'è Cattelan, ma negli States lo humour è più tagliente e ammantato di sarcasmo proprio come il Late Night with Katherine Newbury su cui è incentrata la nostra storia, storia di una quasi caduta e di un'ascesa, e di due donne, una all'inizio del sentiero dorato che porta al successo, l'altra in vetta alla montagna della celebrità.
Riflette sulla diversità il film di Nisha Ganatra, che ci piace chiamare "la versione post #MeToo de Il Diavolo veste Prada", e lo fa in maniera realistica, anche perché dietro a Molly c'è la vita di Mindy Kaling e la sua esperienza nel team creativo di The Office. La Kaling è anche coproduttrice e coprotagonista di E poi c'è Katherine, e quindi sa di cosa sta parlando e, per fortuna nostra, non si perde in una poco costruttiva lamentela sulle discriminazioni (che sono anche di razza e di reddito), ma si arma di buona volontà e si veste di intelligente cinismo. Molly viene assunta più perché fa parte di una minoranza che la società si è imposta di risarcire che per la sua esperienza, però la vera guerra comincia per lei quando deve dimostrare di valere veramente, di essere perfetta per l'incarico che le è stato affidato. In un ufficio popolato da maschi non proprio alpha ma più simili ai compagnucci dispettosi delle elementari, la ragazzotta di origini indiane prova a trovare il modo di fare una televisione succosa, spiritosa e ultra-contemporanea e di rapportarsi a un altro elemento del gentil sesso che non è mai un'alleata. La "regina della notte" Katherine ha combattuto con le unghie e con i denti per farsi strada, ha incassato colpi e tagliato teste, e ora è anaffettiva, tranchant, fredda come solo gli inglesi purosangue sanno esserlo e per nulla solidale con le colleghe. Ovviamente nel film le distanze fra lei e Molly si accorciano, ma solo in una situazione di pericolo.
La morale, facile ma fondamentale, è che fra donne ci si deve aiutare. Come? Non pestandosi i piedi e trovando il coraggio di lasciare il segno attraverso la vulnerabilità che accorcia le distanze, l'autoironia, l'intuito e la condivisione delle proprie tristi o poco elettrizzanti esperienze personali, a cominciare dalla menopausa o da una brutta depressione. E se in E poi c'è Katherine non c'è un vero cattivo, è perché forse noi Pollyanne disilluse ci facciamo ogni tanto del male da sole, o non vediamo le nostre sorelle più piccole. Ma torniamo alla tv, a ciò che fa notizia, ascolto e che va forte sui social o su youtube. La battaglia di Katherine Newbury, che pure ha fascino da vendere, per tenersi il suo show coincide con un imbarbarimento generale del gusto. Siamo nell'epoca in cui le interviste devono diventare "happening", in cui gli influencer valgono più di intellettuali ed artisti e un post virale può da solo stroncare una carriera. In questo senso E poi c'è Katherine non ci svela nulla di nuovo, ma prova a spiegarci che il pubblico può essere educato, anche se piano piano.
E poi c'è Katherine ci regala una Emma Thompson straordinaria e dai tempi comici perfetti, che passa con disinvoltura da un registro all'altro, che è cattiva come la strega o la matrigna di una favola e poi diventa buona. Le sue trasformazioni, però, sono troppe e, via via che il film scivola verso il suo finale felice e un po’ scontato, il personaggio perde consistenza, anche perché la regista si distrae per frugare nel dietro le quinte di un network televisivo e di un late show. A volte sembra raccontarlo con precisione, altre si ferma alla superficie. Non ci spiega, insomma, come si costruisca uno sketch o un'intervista. Non si sofferma sulle dinamiche fra membri dello staff o su quel meraviglioso momento in cui nasce un'idea geniale e si lavora tutti insieme per trasformarla in un prodigio mediatico, e un po’ è un peccato, ma il film non dura quanto le 7 stagioni di Mad Men, che fotografava un altro microcosmo dove gli uomini venivano prima delle donne. Ha la lunghezza di un'ora e 40, un tempo "piccolo" in cui diventa impossibile dire tante cose. L'importante è che Mindy Kaling e Nisha Ganatra le abbiano dette, e alcune verranno certamente colte.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali