...E ora parliamo di Kevin - "Frecce nello stomaco"

17 febbraio 2012
3.5 di 5
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Frammentato su piani temporali diversi, E ora parliamo di Kevin racconta una storia di inquietante semplicità. Una donna dà alla luce un figlio, ha difficoltà ad accettarlo e accettare i sacrifici che comporta.




Negli anni Settanta il cinema di genere si è a lungo occupato del tema della maternità, esplorandone i lati più oscuri e rimossi: dalla maternità aliena di Alien a quella altrettanto altra e demoniaca di film come Rosemary's Baby o Il presagio. Oggi a raccontare che la maternità e il rapporto con un figlio, per quanto naturale, possono essere non solo percepita ma concretamente vissuta come qualcosa di drammatico e perverso è il cinema indipendente.

Frammentato su piani temporali diversi,
E ora parliamo di Kevin racconta una storia di inquietante semplicità. Una donna dà alla luce un figlio, ha difficoltà ad accettarlo e accettare i sacrifici che comporta. Il figlio cresce e le cose si complicano, perché agli inevitabili problemi di rapporto si aggiunge un carattere ambiguo e quasi malvagio. Il figlio cresce ancora e, adolescente, fa strage nel liceo che frequenta. La donna deve vivere con questo dramma addosso. E cercare di capire perché. Dramma durissimo e angosciante, E ora parliamo di Kevin quella domanda, quel perché, li impone senza mezze misure al suo spettatore. Cercando di straziarlo come straziata è la protagonista interpretata da una maestosa Tilda Swinton.

Nella sua prima ora, il film di
Lynn Ramsey è effettivamente travolgente e devastante: merito delle interpretazioni e soprattutto di una regia di altissimo livello, fatta di dettagli e sfocature, di ellissi e rapide sterzate, di indizi e depistaggi. E di un uso del sonoro (e della colonna sonora) intensissimo, decontestualizzato e destabilizzante.
Questo straordinario impianto formale e strutturale del film finisce però, alla lunga, per avere degli effetti desensibilizzanti rispetto al contatto viscerale stabilito inizialmente. Perché la troppa strutturazione toglie calore, perché la reiterazione di una forma diventa ridondanza anche narrativa.

Ma alla Ramsey va riconosciuto un altro merito. Quello di non voler proporre risposte né tantomeno imporre verità. Gli interrogativi della protagonista, del film, di chi guarda, vengono lasciati aperti, senza che questo significhi ignavia o vigliaccheria. Non ci sono cause chiare: con la parziale, comprensibile eccezione in un film così fortemente femminile come questo, di una figura paterna di rara inettitudine.

Il perché di un dramma materno, di un rapporto mancato, di un figlio che si trasforma in un mostro, di un odio che è chiaramente anche (e forse soprattutto) amore, di un gesto folle e devastante, vengono magari suggeriti in maniera sottile e subito smentiti da altre possibili versioni. E come esplicitamente recitato nel finale, tutto quel che E ora parliamo di Kevin sembra voler a tratti rendere chiaro, diventa sempre più sfumato e incerto.

Anche in questo caso, forse, in maniera troppo studiata da risultare più un vero pugno nello stomaco che non una millimetrica, chirurgica, ferita provocata da una freccia scagliata con ferocia.





  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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