Dreams, la recensione: il talento senza sovrastrutture di Dag Johan Haugerud
Orso d'Oro al Festival di Berlino 2025, e nei cinema italiani dal 13 marzo, il film che con Sex e Love forma una trilogia sul vivere l'amore e le relazioni e i sentimenti davvero straordinaria. La recensione di Dreams di Federico Gironi.
A un certo punto, in Dreams (Drømmer, nell'originale norvegse), c'è un personaggio (non importa ora quale) che racconta a un altro (non importa ora quale) di essere rimasto affascinato dalla performance di alcuni ballerini che, dice, si esibivano completamente senza vanità. Ecco, anche io di fronte a Dreams, come agli altri due film della trilogia di Dag Johan Haugerud, sono rimasto colpito dalla assoluta mancanza di vanità con la quale questo regista norvegese racconta le sue storie e dispiega un evidente talento letterario e cinematografico.
Non è che Haugerud non sia ricercato, al contrario. Solo che la sua ricercatezza, che si esprime in dialoghi e monologhi complessi e affascinanti, e in una serie di scelte formali apparentemente semplici e naturalistiche ma al tempo stesso curatissime, lineari, calde e eleganti come il miglior design scandinavo, esce fuori dal film con una semplicità piuttosto sbalorditiva.
Niente in Dreams, come niente in Sex, e niente in Love, sta lì per esibire qualcosa, per colpire, per stupire, provocare o stimolare. Tutto ciò avviene, ma grazie alla sostanza, al contenuto, e non alla sua esibizione. Haugerud smantella ogni sovrastruttura, annienta il retropensiero, azzera il narcisismo. E quello che mette sullo schermo, evidentemente frutto di un attento lavoro intellettuale, letterario e cinematografico, sembra limpido e spontaneo come l'acqua che sgorga da una fonte tra i monti norvegesi. Importa poco, allora, che la diciassettenne protagonista di Dreams, la giovane Ella Øverbye, davvero notevole, possa risultare (anche) poco simpatica, come solo gli adolescenti, nel loro assolutismo e nel loro vedere e considerare solo se stessi, possono essere. Perché quella è la natura delle cose.
Johanna è una ragazzina che s'innamora della sua insegnante, che la cerca, si piazza a casa sua, sogna di essere ricambiata, fino a quando non viene allontanata. La sua storia la ascoltiamo dalla sua stessa voce, voce narrante che racconta la storia sua e quella del diario intimo in cui ha scritto e mescolato infatti, i desideri e i sogni, descritto il sesso, mai avvenuto realmente. Quel diario lo fa leggere alla nonna poetessa, poi alla mamma che prima s'indigna ("mia figlia vittima di abuso!"), e poi si esalta. Quel diario va pubblicato, la ragazza scrive benissimo, e poi può essere un modello: queer, femminista, chissà cos'altro.
Ma importa davvero? Forse no. Decisamente, no. Quello che importa è il sogno: i sogni d'amore di una diciassettenne, capaci di risuonare - con qualche sgomento, con qualche tristezza, con qualche rimpianto - nella mamma cinquantenne e nella nonna settantenne (interpretate da due delle più esemplari attrici norvegesi della loro generazione, Ane Dahl Torp e Anne Marit Jacobsen). Sogni d'amore, bisogno di contatto, senza tensioni, senza filtri, senza sovrastrutture. Non è quello di cui tutti abbiamo, ieri oggi e domani, avuto bisogno?
Johanne scriverà il suo libro, si sentirà comunque vuota, fino a quando non capirà che una pagina si può voltare, e il peso del passato, tutto chiuso in una chiavetta USB, si può lasciare lì, dove è casualmente scivolato. E allora si potrà riprendere a camminare nella città, lungo le vie bellissime di Oslo, la città che Haugerud non mette sullo schermo come sfondo, ma come personaggio, estensione dei personaggi, presenza inevitabile e condizionante quanto i maglioni delle protagoniste, le loro sciarpe, i loro divani, i loro pensieri e le loro parole, le loro braccia che si sfiorano. Senza vanità. Mettendo sullo schermo, con le immagini e con le parole, la condizione sentimentale, amorosa, emotiva dell'individuo contemporaneo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival