Dopo la guerra: recensione del film di Annarita Zambrano presentato al Festival di Cannes 2017
Giuseppe Battiston è un ex terrorista in fuga dopo che l'Italia ne chiede l'estradizione alla Francia.
La guerra del titolo del film di Annarita Zambrano è quella che, nelle parole di Marco, il protagonista interpretato da Giuseppe Battiston, si è combattuta negli anni Settanta e Ottanta tra i terroristi e lo Stato.
Una guerra che - sempre secondo lui scappato in Francia nei primi anni Ottanta dopo aver ammazzato un giudice, e lì diventato uno stimato intellettuale - dovrebbe essere considerata come tale: e che quindi nel presente nei primi anni Duemila, periodo in cui il film è ambientato, dovrebbe vedere amnistiati tutti i crimini commessi allora.
Ma Dopo la guerra non è solo, o tanto, un film su quella "mancata analisi storica
su quel periodo" rivendicata da Battiston, ma anche uno sulla ricaduta degli terroristici sulla vita delle famiglie di chi li ha commessi.
Si apre, infatti, con un omicidio (che poi sarebbe quello di Marco Biagi) commesso a firma di un nucleo terroristico che si rifà a quello di vent'anni prima di cui proprio Marco era stato il leader. Per questo, il suo nome torna sulle pagine dei giornali, l'Italia ne chiede l'estradizione, lui fugge e si nasconde con la figlia adolescente mentre, a Bologna, sua madre e sua sorella sono nell'occhio del ciclone.
La prima cosa che viene da chiedersi, di fronte al film della Zambrano, non riguarda l'aspetto più immediatamente legato al cinema.
Ci si chiede, in tutta sincerità, cosa spinga una regista giovane, al suo esordio nel lungometraggio, scegliere di parlare di questioni di cui francamente non se può più. Perché insistere a guardare indietro, ad anni che non si sono nemmeno vissuti con piena consapevolezza per ovvie ragioni anagrafiche, e a temi che comunque sono stati abbondantemente dissezionati nel corso degli anni.
Preso atto che comunque la sua è una scelta legittima e soggettiva, non aiuta che Dopo la guerra sia tutto sommato un film piuttosto piatto, dove la parte francese (con Battiston in fuga con una botticellinana ragazza, di certo non contenta di dover abbandonarela sua vita per colpa del padre) è sicuramente più riuscita e calibrata di quella bolognese, nella quale Barbora Bobulova (sposata, guarda un po', proprio con un magistrato) che lentamente prende coscienza del fatto che non può più continuare ignorare la presenza di quel fratello ingombrante come ha fatto per vent'anni.
Modellato in maniera piuttosto chiara su Cesare Battisti, il Marco del quasi omonimo Battiston trova modo di snocciolare le sue posizioni politiche, radicali e precise, tutte legate alla retorica ideologica del passato, nel corso di un'intervista a un magazine francese che troverà eco anche in Italia, mentre sua figlia tenta blandi tentativi di boicottaggio della loro fuga, portando il film della Zambrano verso un finale un po' balordo, che tira le fila della storia e la porta a conclusione con un'escamotage narrativo da mettersi le mani nei capelli.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival