Donbass: la recensione del film di Sergei Loznitsa che apre il Certain Regard al Festival di Cannes 2018
Una riflessione grottesta ed esplicitamente partigiana sulla guerra civile ucraina, tra farsa e tragedia, e sulla forza ricattatoria e manipolativa delle immagini.
La guerra del Donbass è qualcosa di assai complicato.
Non bastano certamente le poche righe di una recensione cinematografica, e le mie scarse competenze in materia di politica estera del blocco ex-sovietico, a sintetizzare tutto quello che è successo in Ucraina dopo la rivoluzione arancione del 2004 e dopo quella del 2014, quando le prese di posizione anti-russe del governo centrale hanno portato alla rivolta di forze filorusse dell’Ucraina orientale e meridionale, alla proclamazione di repubbliche indipendenti e, in soldoni, all’inizio di una guerra civile che in buona sostanza si trascina ancora fino ai giorni nostri.
Donbass, il film che Sergei Loznitsa ha voluto girare su quei fatti (dopo essersi imbattuto in un crudo filmato amatoriale, dice) complicato lo è assai di meno. Perlomeno dal punto di vista geopolitico.
Il quarto film di finzione del regista, infatti, taglia un po’ con l’accetta questioni dai confini frastagliati e a volte incerti, nel nome di un diritto - morale, prima ancora che cinematografico - che nasce dalla volontà di mostrare gli orrori di un conflitto e di una parte (quella filorussa) che lo portava e porta avanti nel segno di una propaganda di pace, libertà e giustizia utile solo all’interesse di pochi, e al libero sfogo della natura più avida e rapace dell’essere umano.
Dombass è fatto di quadri, scenette. Di segmenti isolati e magari legati solo da un movimento della macchina da presa, dal fluttuare di un personaggio, o di un oggetto (magari una macchina) da una situazione e un luogo ad altri, sempre nel segno della violenza e dell’arroganza.
Procede per spunti e suggestioni che non toccano tanto il realismo documentario di buona parte della sua produzione registica, Loznitsa, ma che ad un naturalismo spontaneista solo apparente (alcune scene del film sono finte soggettive, altre sembrano filmate da videocamere per qualche motivo già dentro le scene) sovrappone uno sguardo ideologico e grottesco che vuole fare emergere l’assurdo e il deforme che si annidano in personaggi ed episodi.
Il regista lo ha detto chiaramente: della guerra gli interessava sì raccontare la tragedia, e la farsa, ma anche - riprendendo una frase di Varlam Chalamov - la sua natura di specchio di quanto di sotterraneo e nascosto e rimosso si nasconde nelle vite degli uomini, e nella loro natura più intima.
Crudele e sfacciato, per via del disgusto provato, più che interessato alla comprensione, Dombass si sviluppa in maniera che solo apparentemente è ondivaga e discontinua, penalizzato nel suo movimento continuo da una durata eccessiva, e dalla voglia del suo autore di calcare sempre la mano, e mai di fare un passo di lato, se non indietro.
Solo in apparenza, perché la consapevolezza del regista sul film, sul suo linguaggio, sul suo contenuto, è costante e totale: anche troppo: tanta testa, poco cuore, scarsa emozione, un filo di teatralità esibita qui e là: perché le due parentesi quasi metacinematografiche che incastonano tutto il resto sono un chiaro invito/rimando alla manipolazione dei fatti e delle cose che è possibile grazie alla messa in scena, all’immagine, alla propaganda.
Quella propaganda cui Loznitsa risponde, con la stessa violenza e la stessa arbitrarietà, con quella messa a sua disposizione dal cinema e dalla sua macchina da presa. Che almeno, come armi, non fanno vittime né feriti.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival