Don't Look at the Demon: la recensione del film horror con Fiona Dourif
La figlia di Brad è la protagonista di questo film diretto dal malese Brando Lee che tenta di innestare regole e stereotipi del filione demoniaco-esorcistico hollywoodiano sulla matrice del folklore e della spiritualità del suo paese. La recensione di Don't Look at the Demon di Federico Gironi.
Percorrendo la via Indipendenza di Bologna, sotto al portico di destra, c’è un bar nel quale, con un pizzico di fortuna, potreste trovare di turno una certa ragazza. Una ragazza dai modi gentili e dallo sguardo inquieto che io, vedendola per la prima volta, ho pensato immediatamente potesse essere la figlia di Brad Dourif, quello di Qualcuno volò sul nido del cuculo e Velluto blu, di Mississippi Burning e del Signore degli Anelli.
A farmi pensare così, oltre a dei lineamenti nel complesso simili, proprio quello sguardo inquieto e penetrante, quegli occhi azzurrissimi che sono uno dei tratti inconfondibili dell’attore americano.
Poi, certo, sapevo benissimo che quella ragazza lì, nel bar sotto al portico di via Indipendenza a Bologna, al 99,9%, non era davvero la figlia di Dourif. Perché non era americana, perché troppo giovane, e anche perché Dourif una figlia ce l’ha già, e non è lei.
La figlia di Brad Dourif, quella vera, si chiama Fiona, ha 41 anni, e ha gli stessi occhi del padre. E della ragazza del bar di Bologna. E anche lei, di mestiere, fa l’attrice.
Oltre a aver affiancato papà Brad nei film e nella serie che vedono protagonista la bambola assassina Chucky (cui Dourif padre presta storicamente la voce), Fiona è apparsa in serie come Deadwood, True Blood, Dirk Gently's Holistic Detective Agency, The Purge e Utopia, e in film come The Messenger, The Master e Tenet.
Ora è anche la protagonista di questo Don’t Look at the Demon, horror demoniaco in salsa (quasi) malese che la vede nei panni di una giovane donna con un passato traumatico che usa le sue abilità medianiche a fini economici, come protagonista di un (quasi) reality televisivo che la vede indagare su fenomeni presunti paranormali. È così che giunge nella grande villa di una coppia di americani residenti in Malesia, dove presto si renderà conto di avere a che fare con presenze assai pericolose e fortemente aggressive.
Se nel parlare di Don’t Look at the Demon mi sono concentrato così a lungo sulla sua protagonista, e sulla sua sosia bolognese, non per via di una particolare passione per Fiona Dourif, che pure è brava, ma perché lei, assieme al nome del regista, Brando Lee (uno che secondo il pressbook del film “è cresciuto nella periferia di Kula Lumpur e si è nutrito di film hollywoodiani come Lo squalo, L'esorcista e Guerre stellari”), uno dei pochi punti d’interesse di un film molto prevedibile (finale “shock” compreso, che però almeno non è malaccio).
Bisogna certo rendere merito a Brando Lee di aver cercato di mediare la sua cultura d’origine con l’evidente imprinting hollywoodiano, ma certo lo sguardo sulle tradizioni e sul folklore malese è troppo superficiale, banalizzato a uso e consumo del pubblico occidentale, e comunque sovrastato da una superficie esile e non raffinatissima nella quale a dominare su personaggi appena abbozzati e situazioni implausibili sono citazioni implicite e esplicite dell’Esorcista e del filone che ha generato, delle saghe di Amityville e Paranormal Activity e perfino di Shining.
Restano una o due di scene di discreta efficacia - grazie soprattutto alle capacità di Fiona Dourif - e una dedica finale al maestro spirituale di Brando Lee, il buddista Sua Eminenza Kyabje Tsem Rinpoche, morto nel 2019.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival