Dickens L'uomo che inventò il Natale: recensione del film per le feste sul grande scrittore britannico

19 dicembre 2017
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Il processo di scrittura di Canto di Natale.

Dickens L'uomo che inventò il Natale: recensione del film per le feste sul grande scrittore britannico

Non è mai semplice mostrare il processo creativo di uno scrittore all’opera, specie se parliamo di Charles Dickens alle prese con uno dei libri più venduti di sempre, Canto di Natale. Reduce da una trasferta americana legata al trionfo di Oliver Twist, fra 1842 e 1843, seguita però da tre insuccessi consecutivi, lo scrittore si trova indebitato e alla ricerca di un nuovo soggetto da trasformare in libro, frustrato dalla necessità di lavorare con tempi strettissimi per mantenere il suo stile di vita e il padre debitore incallito.

È a questo punto che il britannico di origini indiane Bharat Nalluri (Miss Pettigrew) prende il testimone di una sceneggiatura tratta dal saggio L’uomo che inventò il Natale. In effetti il ruolo di questo racconto lungo è stato cruciale nel codificare una festa che, in piena rivoluzione industriale, era visto dalla classe imprenditoriale più come una scocciatura per la pretesa degli operai di restare a casa almeno per un giorno, lontani dalle malsane e proverbiali condizioni estreme delle fabbriche britanniche.

Lo Shakespeare del romanzo, come veniva chiamato, si rinchiuse per sei settimane nel suo studio, in preda a una febbre creativa non sempre pronta a soccorrerlo, con il terrore del blocco dello scrittore, e la paura che accompagna sempre chi fa quel mestiere, quella di non riuscire a produrre più una riga. Più che un processo di scrittura, Dickens ci regala un vero viaggio nella sua mente, popolato dai suoi personaggi che indossano alternativamente i panni di fantasmi ostili o propositivi. Su tutti la vera star del libro: il perfido Scrooge (il solito impeccabile Christopher Plummer) imprenditore non diverso da molti altri, dal cuore arido e senza un filo di empatia verso il mondo, men che meno verso i suoi dipendenti. 

Una messa in scena vera e propria che coinvolge con un ritmo frenetico e una buona tenuta cinematografica Charles Dickens, reso con la dovuta ipercinesi da Dan Stevens (Downton Abbey). Il suo percorso in cerca del Canto di Natale lo porterà continuamente a confrontarsi con il nodo cruciale del suo passato, sotto forma di incubo notturno ricorrente. Nella sua infanzia fu costretto a lavorare, sfruttato, in una fabbrica, a causa dell’arresto per debiti del padre. A 11 anni la sua vita cambiò radicalmente, da qui la particolare sensibilità che lo rese vero cantore dell’infanzia disgraziata dell’età vittoriana, oltre che delle drammatiche diseguaglianze sociali.

Su questa struttura piramidale si basava la vita quotidiana londinese che Dickens denunciò in molte occasioni, elaborando il lutto per l’abbandono da parte del padre attraverso Scrooge, portato dal suggerimento di una sua cameriere a immaginare una sua possibile conversione tardiva all’altruismo, legando le festività natalizie al perdono, come nelle festività di inizio anno del calendario ebraico. Nalluri ci mostra un uomo ferito, spietato nei confronti del candore irresponsabile ma sincero del padre (“agisce come se niente avesse importanza, non pensa mai al futuro”), alle prese con un percorso di sutura di queste ferite, così come quelle dei suoi personaggi, non sempre molto obbedienti.

Un mondo pieno di fantasia, fantasmi del passato e del presente, oltre a paure del futuro, in un periodo, il Natale, in cui “si assottiglia il velo fra questo mondo e l’altro e allora gli spiriti lo oltrepassano e camminano fra di noi”.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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