Diaz - la recensione del film di Daniele Vicari

11 aprile 2012
3.5 di 5
6

Su una cosa dovrebbero tutti essere d'accordo, indipendentemente dagli schieramenti politici o cinematografici: che quanto accaduto a Genova nel 2001 rappresenta ancora un ingombrante e vergognoso rimosso nella coscienza collettiva del nostro paese.


 

Su una cosa dovrebbero tutti essere d’accordo, indipendentemente dagli schieramenti politici o cinematografici: che quanto accaduto a Genova durante il G8 del 2001, e in particolare alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, rappresenta ancora un ingombrante e vergognoso rimosso nella coscienza collettiva del nostro paese.
Raccontare quei fatti al cinema, però, tendeva più di una trappola. E bisogna rendere atto a Daniele Vicari di averle evitate pressoché tutte in un film di grande impatto emotivo.

Perché
Diaz, prima di ogni altra cosa, e soprattutto prima di essere un pamphlet, un volantino di rivendicazione, è un film.
Un film che ha voluto trovare prima di tutto nel cinema, nella struttura narrativa e nelle dinamiche di genere, e poi nei dati fattuali estrapolati dagli atti processuali, fondamenta solide abbastanza da poter resistere alle polemiche e alle partigianerie.
Se poi quello di Vicari è un film militante, lo è in forme decisamente insolite per la tradizione del cinema italiano socialmente e politicamente impegnato: la sua militanza non è figlia infatti di una partigianeria politica, ma di un sincero e appassionato afflato democratico, e soprattutto rifugge ogni volontà più direttamente accusatoria e dietrologica, facendosi documento (e non documentario) il più possibile (s)oggettivo.

Il racconto polifonico su cui si basa
Diaz ha una funzione diretta ed esplicita: quella di moltiplicare i punti di vista, le opinioni, e quindi a cercare una verità, per quanto personale, nella complessità.
Ma Vicari non adotta (solo) uno stile para-documentaristico, elaborando i dati fattuali e ricercando l’astrazione del e nel genere: ecco che allora questa terribile narrazione collettiva, dove gli sguardi e le voci (le lingue) si sovrappongono confuse e convulse, fanno del film un racconto allucinante e onirico.
Vicari
non si nasconde dietro un dito, non nega gli errori nel movimento e non demonizza aprioristicamente le forze dell’ordine. Si prende le sue responsabilità e azzarda anche narrativizzazioni rischiose ma meritevoli, rifugge la retorica e rimane attaccato ai volti (e ai corpi) dei suoi protagonisti, lasciando che l’intrecciarsi delle loro storie e dei loro sguardi si snodi come un tesissimo incubo sotto gli occhi degli spettatori.

In questo quadro, è quasi ingeneroso, ma necessario, sottolineare come nei pochissimi momenti dove la sceneggiatura si fa sentire di più, in bocca a questo o a quell’attore, la nota suoni aspra e stonata.

Ma Diaz è comunque cinema intenso, doloroso e potente. Straziante nel racconto di una violenza riguardo la quale, alcune volte, Vicari si è intelligentemente censurato.
Opprimente e chiuso in sé stesso, senza vie d’uscita: un tunnel, come quello imboccato dal torpedone dei reduci alla fine del film.
Un grido assordante, rabbioso, ma in un certo senso muto: metaforicamente parallelo al senso di mani legate e d’impotenza di allora e di oggi e al colpevole silenzio di istituzioni che avrebbero dovuto avere il coraggio di parlare.
Non una denuncia, ma una testimonianza dell’orrore del reale.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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