Into the Inferno: recensione del documentario di Werner Herzog prodotto da Netflix
Si parte dai vulcani, si passa per la Corea del Nord, si parla - come sempre - della natura e della condizione umane.
La liason tra Werner Herzog e i vulcani non è certo cosa recente. Prima ancora di questo film, realizzato in collaborazione e a partire dal libro di Clive Oppenheimer, vulcanologo di Cambridge, è storia del cinema e mitologia herzoghiana che il tedesco mollò tutto, mentre stava ancora lavorando a Cuore di vetro, per andare di corsa a Guadalupa, già evacuata, per filmare l'eruzione della Grande Soufrière: il risultato, appunto, è il corto documentario intitolato La Soufrière.
Ancora, mentre girava Encounters at the End of the World, il suo documentario sull'Antartide, passò del tempo sull'Erebus, in compagnia di alcuni vulcanologi che aveva incontrato: e la conoscenza con Oppenheimer nasce da lì.
Con Into the Inferno la relazione si fa più stretta, si approfondisce e rivela la sua vera natura: perché nel giro del mondo che porta Herzog e Oppenheimer sulle pendici dei più celebri e pericolosi vulcani del mondo, ci sarà spazio anche e soprattutto per questioni che con lava, lapilli e piroclasti non hanno direttamente a che fare.
Certo, di fronte allo spettacolo incredibile della natura, lo sguardo di Herzog è come sempre rapito e affascinato. In lui è connaturato il germe del romanticismo tedesco che lo fa sembrare una versione con la macchina da presa del "Viandante sul mare di nebbia": anche quando rimira direttamente i laghi o i fiumi di magma ribollente, la sua curiosità - con buona pace di Oppenheimer - non è mai scientifica, né epistemologica. Da bravo romantico, quella fascinazione si traduce sempre, per lui, in domande filosofiche ed esistenziali.
Perfino la curiosità antropologica, la voglia d'indagare come le popolazioni da sempre vissute nelle vicinanze dei vulcano hanno tradotto l'ansia e la precarietà in storie di spiriti, demoni e divinità, non sta al nucleo della riflessione di Into the Inferno. Lo dice chiaramente, il tedesco, a un certo punto. Quello che lo affascina è il pensiero di questa instabile liquidità che sta sotto quello che consideriamo un suolo saldo e fermo: la fragilità delle fondamenta umane, l'impermanenza di ogni esistenza e di ogni creazione.
Eppure, vale la pena viaggiare e scoprire, incontrare improbabili biologi americani col pallino di Las Vegas in Etiopia, dove mentre stai filmando vengono scoperti rarissimi fossili di un ominide risalente a 100mila anni fa. Vale la pena passare dall'Islanda all'Indonesia seguendo le tracce di storiche eruzioni, se questo viaggio di porta, improvvisamente, in Corea del Nord, dietro la cortina impenetrabile di uno dei regimi più incredibili, assurdi e misteriosi del nostro tempo.
Sì, l'impressione, che arriva dopo un'oretta di vulcani e non, è che Into the Inferno non sia stato per Herzog altro che il cavallo di Troia per fare il film che gli interessava veramente, che qui dura una ventina di minuti abbondanti e che lascia a bocca aperta: quello sul paese di Kim Il-sung, Kim Jong-il e Kim Jong-Un, della loro stupefacente macchina propagandistica.
Con immagini straordinarie che sembrano uscite da una distopia fantascientifica e poche, azzeccatissime parole, Herzog non squarcia il mistero coreano, ma si e ci immerge in esso (into the inferno, appunto) e lo rende coerente col racconto fatto fino a quel momento nel suo film: da un lato l'enorme e venerata montagna minacciosa, la vita alle sue pendici, le mitologie e le simbologie, dall'altra un leader reso divinità e i suoi adepti, il suo culto.
Si torna poi ai vulcani, ma oramai il trucco è stato svelato: il trucco di quel folle, ironico e acuto genio che è Werner Herzog.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival