Das Licht, la recensione: massimalista e bulimico, parla di tutto e non dice niente
Tom Tykwer apre per la terza volta (dopo Heaven e The International) il Festival di Berlino, e lo fa con un film tanto ambizioso quanto confuso, che sbaglia praticamente tutto quel che c'è da sbagliare. La recensione di The Light, film d'apertura della Berlinale 2025, di Federico Gironi.
Stanno messi male, gli Engels (e chissà - domanda retorica - se con questo cognome Tom Tykwer non stia cercando di dirci qualcosa). C’è Milena, che lavora in Africa a progetti finanziati dal governo tedesco per le popolazioni locali, e vuole costruire un teatro per far esibire bambini e ragazzi a Nairobi, e che non è mai a casa, e che quando c’è e incrocia il marito Tim, lo tratta al più come un coinquilino rompiballe, verso il cui desiderio prova fastidio e imbarazzo, e che non ha superato il fatto di aver dato vita a due gemelli (diciassette anni prima) e aver limitato la sua libertà. Tim, che lavora in un’agenzia di comunicazione, che è libero e ribelle e sicuro di sé solo in apparenza (dentro è fragilissimo), non sa come fare a risolvere le cose con Milena, che ama, mica solo desidera, ma quando vengono fuori i problemi e le questioni da affrontare ha come la tendenza a levare le tende. Poi ci sono i figli: Jon è quasi un hakikomori che ha paura d’incontrare dal vivo la ragazza di cui si è innamorato nella realtà virtuale; Frieda una fricchettona che flirta con l’attivismo ecologista e con svariate sostanze, ma che ha paura del sesso (anche se si trova a dover abortire); entrambi hanno gran risentimento nei confronti dei genitori, e non perdono occasione per sputargli addosso le loro contraddizioni. Quando s’incontrano, ovviamente, e non succede spesso.
Ah, c’è pure un bambino di nome Dio (sic.), che Milena ha avuto nel corso di una relazione extraconiugale con un kenyano, e che ogni tanto passa del tempo a casa loro, in fissa totale per "Bohemian Rhapsody" dei Queen. Il tutto in una casa bellissima, grandissima, disordinatissima, dove ognuno vive come un’isola, e che è strapiena di segni identitari: perché gli Engels - poteva essere altrimenti? - sono di sinistra-sinistra, anche se vien fuori che hanno la tendenza a predicare bene e razzolare male.
Diciamo che Tykwer non è che avesse iniziato a muovere il dito male, con l’intenzione di andarlo a mettere nella piaga di una serie di contraddizioni e di crisi dell’individuo, della coppia e della famiglia e dell’ideologia borghesi. Una questione del nostro presente, che poteva anche essere interessante andare a stuzzicare . Solo che poi invece di mirare e lavorare su un punto, a Tykwer si sono moltiplicate le dita, e i punti che voleva andare indicare, e le piaghe che vorrebbe riaprire, e tutte queste dita finiscono col fare il solletico: nel doppio senso di rendere tutto un po’ ridicolo, e pure assai superficiale.
Quel che è peggio, poi, è che Das Licht non si limita a questo.
Perché nella trama del film, a cercare di sanare la situazione degli Engels arriva Farrah, misteriosa profuga che arriva in casa come colf - anche se ha un background in psichiatria - e diventa una specie di loro personalissima psicoterapeuta prima e sciamana poi. Solo che pure questa Mary Poppins siriana (rubo la geniale definizione a Mauro Donzelli, che ha visto il film con me) ha i suoi problemi, i suoi fantasmi, e una famiglia (un marito e due figli, gemelli pure loro) chiusa in uno strano centro di detenzione.
Ecco che allora, un po’ per la militanza politica di tutti, un po’ per il lavoro di Milena, un po’ per la storia privata e personale di Farrah - che emergerà nella sua interezza e nella sua realtà solo alla fine - The Light non prende solo di mira quelli che gli anglosassoni chiamerebbero i white people problems degli Engels, ma anche le ipocrisie di un pensiero e di un certo agire di sinistra, della sinistra borghese che ha bei lavori e vive in begli appartamenti e tutto il resto, e come quel loro agire serva spesso più a lavarsi la coscienza che a altro, e come dietro certa apparenza si nasconda sempre un pensiero paternalista - quando non postcolonialista - nei confronti di chi viene “aiutato”.
Anche questa questione non è affatto sbagliata in sé: peccato che Tykwer gestisca malissimo pure questa, banalizzando, arrivando nel finale a dei parallelismi quasi immorali tra la condizione degli Engels e quella della famiglia di Farrah, i loro problemi e i loro rispecchiamenti, e comunque dando per tutto il film l’impressione di incorrere nelle stesse contraddizioni miopi e negli stessi peccati dei personaggi che racconta. Come se le famose piaghe, The Light le illuminasse per pulirsi la coscienza e continuare a essere esattamente il tipo di cinema quelle contraddizioni e quei peccati e quelle crisi le replica, rispecchia, incarna.
Massimalista, bulimico, smanioso di parlare di tutto per non dire (e forse nemmeno capire) mai niente, sbrodolato in due ore e quaranta che potevano essere non dico la metà ma quasi, The Light è anche afflitto da una malattia postmodernista per la quale, assieme a una fotografia patinatissima, alla consueta mescolanza tra dramma e commedia borghesi, e a tocchi di realismo magico, si alternano (bruttissimi) numeri da musical, sequenze psichedeliche e perfino inserti in animazione. Come in uno scontro raccapricciante tra Kill Bill, Emilia Pérez e certi film di Ferzan Ozpetek. Peggio non poteva andare.
Ma cerchiamo di guardare al lato positivo: se Nicolette Krebitz, nei panni di Milena, regala uno dei personaggi femminili più insopportabili del cinema contemporaneo (condensato di isterismi, vulubilità, egocentrismi e distorsioni del femminismo che fanno venire il sospetto di una certa misoginia), per fortuna nel film c’è Lars Eidinger, il genialoide attore che nella serie capolavoro di Assayas Irma Vep, come altrove, era straordinario, e che qui cerca di compensare col suo talento gli infiniti problemi del film, e che anima (e corpo) il suo Tim. Un Tim che - siccome tra le mille cose The Light parla pure di crisi del maschio - è nevrotico, fragile, ritardatario, vanesio, scalzo, nudo, arrapato e vigliacco.
Simpatico no, nemmeno lui. Nessuno degli Engels lo è. Ma almeno è ben recitato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival