Crazy Heart, la recensione del film con Jeff Bridges
Più che per la storia o la messa in scena, Crazy Heart va visto per la prova prodigiosa d’attore di Jeff Bridges, dolente e poetico nell'interpretare un cantante country sconfitto ma ancora appassionato. Accanto a lui una Maggie Gyllenhaal altrettanto convincente. Un film dal sapore antico, forse anche già visto, che però sa poggiarsi ...
Crazy Heart - la recensione
Sono rarissime le occasioni in cui basta un attore a fare un film. Quando succede di solito a colpire è la possibilità di scorgere l'uomo dietro il personaggio, di vedere in chiaroscuro l'essere umano che prende possesso della maschera ed attraverso essa si mette in gioco, quasi si trattasse di un'ammissione di fronte al pubblico. Lo scorso anno questa sensazione l’aveva trasmessa Mickey Rourke con The Wrestler. Adesso tocca invece all’icona Jeff Bridges, struggente protagonista di Crazy Heart.
Di fronte a prove come questa appare inutile parlare di bravura d’attore, di mimesi dell’interpretazione: a commuovere non è di certo la tecnica ma l’umanità ed il dolore esposto con cui Bridges ha dato anima e corpo al cantante country “Bad” Blake. La pulsione autodistruttiva dell’alcolizzato non è certo una novità nel cinema americano: dal giornalista Ray Milland dei Giorni perduti di Billy Wilder in poi questa figura di loser ha costantemente affascinato cineasti ed attori, fornendo loro spunto per decine di film. La grandezza specifica dell’interpretazione di Jeff Bridges sta nell’aver plasmato un uomo alla deriva che non esplode, anzi mantiene al proprio interno il dolore che lo sta corrodendo, fattore che lo rende ancora più poetico e solitario. “Bad” Blake è un’anima alla deriva che quando trova in Jean l’amore fa di tutto per contrastare la propria natura e renderla felice. Semplicemente non ci riesce.
La gentilezza ed il pudore con cui la sceneggiatura di Scott Cooper – tratta dal romanzo purtroppo inedito di Thomas Cobb – consente a Bridges di lavorare in sottrazione su un personaggio che altri avrebbero reso strabordante sono efficaci. Certo, poi Crazy Heart si muove in maniera abbastanza prevedibile all’interno dei canoni del melodramma. Anche la regia dello stesso Cooper non possiede particolari guizzi estetici, a parte una scena in cui l’uso del primissimo piano su Bridges e Maggie Gyllenhaal si dimostra una soluzione estetica molto raffinata e di fortissimo impatto emotivo. Probabilmente un’idea di messa in scena maggiormente invasiva di quella scelta dal regista sarebbe però stata eterogenea rispetto al tono scelto per il racconto e soprattutto non necessaria per “accompagnare” la prova sofferta di due attori di razza purissima come i due protagonisti. Già, perché se di lui abbiamo già tessuto le lodi, va sottolineata anche la magnifica performance della talentuosa Maggie, anche lei in grado di contenere il suo timbro istrionico e risultare una perfetta controparte del personaggio di “Blake”, in quanto donna che conosce il proprio dolore e sa affrontarlo, se necessario allontanarlo anche a costo di enormi sacrifici.
Fortemente voluto da Robert Duvall, produttore esecutivo e presente in una piccola ma significativa parte – Crazy Heart a ben vedere rappresenta un film “gemello” di quel Tender Mercies – Un tenero ringraziamento che regalò a Duvall l’Oscar come miglior attore del 1983 – la pellicola di Cooper non trova il suo valore principale nell’originalità della sceneggiatura o nell’estetica della messa in scena, ma si pone come veicolo sobrio e sufficientemente calibrato per lasciare il giusto spazio al cuore pulsante del film, un Jeff Bridges che concede anima sconfitta e corpo segnato ad uno dei loser più commoventi ed intimisti apparsi sul grande schermo da anni a questa parte. A quanto pare l’Oscar ce l’ha già in tasca: speriamo davvero non si verifichino sorprese dell’ultimo momento.
- Critico cinematografico
- Corrispondente dagli Stati Uniti