Contraband - la recensione del film con Mark Wahlberg

11 luglio 2012
2.5 di 5

Remake dell'islandese Reykjavik-Rotterdam diretto dallo stesso regista, Baltazar Kormákur




Nel bel mezzo dell’era digitale, dove si parla solo di reti e dati, si tende a rimuovere che lo spostamento fisico di genti e merci è ancora una realtà concretissima e irrinunciabile. Le navi mercantili, ad esempio, solcano i mari con immutata frequenza; per quanto secondo un certo immaginario ci appaiano, con il loro acciaio arrugginito, con la salsedine che corrode, le sale macchine e le plance, gli oblò e le cime di ormeggio spesse come barili, residuati di un Novecento industriale dalla lontananza relativa a dir poco impressionante.
Tutto questo per dire che Contraband, ambientato in buona parte proprio a bordo di un cargo che da New Orleans salpa alla volta di Panama e ritorno, è un film che, pur innegabilmente di oggi, sembra provenire da un XX secolo cinematografico che pare oramai distante anni luce.

Quello che
Baltazar Kormákur ha diretto negli States a partire da quel Reykjavik-Rotterdam che aveva realizzato nella natìa Islanda è infatti un film che, sia dal punto di vista della trama che da quello della messa in scena, è quasi anacronistico. Un oggetto fisico e muscolare, ruvido e privo delle fredde morbidezze digitali, ben calato nel contesto di una New Orleans proletaria e operaia lontana dagli stereotipi del Quartiere francese e del Mardi Gras e invece somigliante alla Boston dei film diretti da Ben Affleck.
Però, sebbene interpretato da un Mark Wahlberg che pare nato per parti del genere e co-protagonisti funzionali e azzeccati (con l’eccezione, forse, di Lukas Haas), il lavoro di Kormákur non riesce ad ottenere gli stessi risultati di un The Town o di un Gone Baby Gone.

Strizzando l’occhio alle macchinazioni precise e tutte intellettuali degli
heist movie, Contraband non rinuncia però né all’azione e alla violenza gangsteristica che nasce da armi da fuoco e bicipiti d’acciaio, né ad un coté retorico-familiare che spinge verso un finale fin troppo lieto e ironico, a-la-Ocean’s Eleven, per essere partorito da quanto è venuto prima.
Un po’ confuso (e molto schematico) narrativamente, Kormákur tenta allora di rifarsi con la regia, mettendo però in questo modo in luce tutti i suoi limiti: quello di uno shooter che pare uscito di peso dalla Hollywood di fine anni Ottanta.
E Contraband risulta alla fine poco più di un oggetto vagamente anacronistico e curioso che si osserva alzando appena un sopracciglio.
Come una grande nave mercantile che si staglia all’orizzonte mentre si sta inviando un sms dalla sdraio della spiaggia.

Contraband
il trailer italiano del film


  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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