Companion, la recensione: la fabbrica di questo nostro grande amore

23 gennaio 2025
2.5 di 5

L'esordiente Drew Hancock mescola thriller e satira (o meglio, meme) per raccontare cose attuali ma non nuovissime, come le relazioni tossiche, i maschi narcisi e insicuri, il nostro rapporto con le tecnologie più avanzate. La recensione di Companion di Federico Gironi.

Companion, la recensione: la fabbrica di questo nostro grande amore

La voce narrante è quella di Iris, ovvero Sophie Thatcher, ed è lei che vediamo per prima, vestita quasi come fosse appena uscita dalla Fabbrica delle mogli. La vediamo in primo piano, e all’occhio - almeno al mio - salta una leggera, splendida e vagamente conturbante imperfezione nei due incisivi superiori, che stona un po’ con tutto il resto e che diventa immediatamente simbolo di molte delle cose a venire. Poi vediamo il Josh di uno che pare il figlio di Dennis Quaid e Joshua Jackson, ma poi scopri che è figlio di Quaid e di Meg Ryan, e ti ricordi di quando i due facevano coppia; poi quando Jack Quaid sorride, ti viene anticipato quasi che questo suo personaggio in Companion fa il paio con quello interpretato dal papà in The Substance.
Ti chiedi quanto ci metterà il film a rivelare quella cosa che dovrebbe essere un segreto e che invece dovremmo sapere già tutti, e di cui non è molto possibile evitare di parlare nelle righe che seguiranno, e nel frattempo vedi che Companion mette sullo schermo tantissime marche del cinema contemporaneo, di quel cinema contemporaneo industriale che si ossessiona a rappresentare il suo pubblico di riferimento.
E quindi, ecco la bella villa isolata, il gruppetto di amici, quella poco simpatica ma tosta, la coppia gay, e c’è pure un misterioso russo. Le auto elettriche che si guidano da sole, il buon cibo e il vino, la musica e il divertimento spensierato e sarcastico. E poi, eccolo lì, il patatrac.

Allora.
Cercherò di non svelare troppo della trama perché altrimenti gli ansiosi dello spoiler se la prendono, però che Iris non è un vero essere umano, ma un robot, sorta di evoluzione delle più realistiche sex dolls dei nostri tempi, lo devo dire. Sperando di non sorprendere nessuno. Così come devo dire che - per ragioni di trama che non svelerò - l’idillio di amore, tutto artificiale, tra Iris e Josh si rompe, gli altarini vengono svelati, lui si rivela il pezzo di fango che è, lei inizia a pensare con la sua testa, e il conflitto fra loro si fa questione di vita o di morte. E dico anche che, dentro questa dinamica, gli spunti interessanti non mancano, e spesso si moltiplicano.

Sicuramente Companion è un film sulla coppia, e sui suoi squilibri. Sicuramente su quelle che oggi vengono chiamate “relazioni tossiche”, dove c’è una o uno che ama tantissimo e l’altro o altra che è un narcisista frustrato. Uno che vuole solo essere adorato, che dopo il sesso - non brillantissimo, a naso - si volta dall’altra parte e dice “ora dormi”, che vuole sentire come l’altro o l’altra abbiano bisogno di lui, perché quel bisogno significa controllo e possesso. Josh è tutto questo, e infatti, dal suo punto di vista, Iris è in suo controllo e in suo possesso (anche se, a un certo punto, gli scappa “you’re a rental”, sei a noleggio). E ecco che allora, con il risveglio di Iris, con la sua presa di coscienza, con la sua lotta per la sopravvivenza (e quindi per l’autonomia), Companion è chiaramente un film diretto a tutte quelle vittime - che si presuppongono in maggioranza femminili - di una relazione tossica e di un compagno stronzo e manipolatore.

L’idea (il sogno perverso) di vedere nell’altro qualcuno utile solo a sfogare i propri istinti, da plasmare a piacimento, da accendere e spegnere a seconda del proprio capriccio, oltre che transgender (la coppia gay sta lì per quello… ops: spoiler), è poi anche affiancata, nel film, da ragionamenti che riguardano il nostro rapporto con la tecnologia, l’evoluzione dell’intelligenza artificale e le sue possibili implicazioni etiche, e soprattutto di un’umanità che - in parte anche per via di una serie di oggettivi squilibri e ingiustizie economico-sociali, che però troppo spesso diventano alibi - diventa sempre più avida, sadica, mostruosa. E tutto quello che associamo normalmente all’umano diventa, quindi, prerogativa della post-umanità dell’IA.

Insomma. Di carne al fuoco, dal punto di vista dei temi (forse non originalissimi), Companion ne mette tanta, e se ne bea. Dimenticandosi forse di pensare come si deve alla cosa più importante di tutte.
Ossessionato dal LOL e dalle strizzate d'occhio, testardamente convinto di dover stemperare nella più banale delle ironie postmoderne ogni situazione, chiaramente influenzato dalla cultura dei meme (che pure oggi governano il mondo, ma tra satira e meme c’è un abisso culturale e antropoligico), lo sceneggiatore e regista Drew Hancock mette sullo schermo un thriller blandissimo e patinato, dove non si scava mai davvero né nel lato oscuro di ciò che si racconta né si pensa a dare profondità alla dimensione più puramente cinematografica. Tutto quello che conta, in Companion - e in fin dei conti, che il film si apra e si chiuda con la voce narrante della protagonista è in questo senso un’enorme spia rossa lampeggiante - è l’enunciazione, ciò che viene detto, mostrato, spiattellato, che sta nella superficie delle cose e nell’evidenza delle parole e dello schermo.
Tutto questo è molto segno dei tempi, certo, e Companion nei suoi tempi ci sguazza e li sa leggere e raccontare: ma la sparizione dell’ambiguità, dell’oscurità, del nascosto, come quella delle sagome dei camerieri fuori dai ristoranti, e della voglia di abbracciare il genere in maniera sguaiata ma appassionata, a noialtri un po' anziani mette un po’ di tristezza.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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