Come pecore in mezzo ai lupi: la recensione del noir con Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli
Per il suo esordio nella regia Lyda Patitucci sceglie un poliziesco cupo e asciutto da cui non esclude il sentimento né un amore per i protagonisti, interpretati da Isabella Ragonese e Andrea Arcangeli. La recensione di Carola Proto.
Mai titolo fu più azzeccato, per un film, di Come pecore in mezzo ai lupi, e questo perché i due personaggi principali e in fondo buoni del noir che segna l'esordio nella regia di Lyda Patitucci si ritrovano a partecipare all'azione criminale di una banda crudele e soprattutto molto sospettosa. È sufficiente un passo falso o un piccolo cedimento per essere crivellati di colpi e gettati in un fosso, o in un fiume. E dal momento che i lupi sono serbi e hanno conosciuto la guerra, Vera e Bruno devono esercitare un fortissimo autocontrollo per non far capire agli altri di essere fratello e sorella, e che la prima è una poliziotta infiltrata e il secondo un disperato che vuole rinunciare al colpo. Già questa "recita", di cui lo spettatore viene subito messo al corrente, crea una notevole tensione, alimentata poi da una continua dialettica tra emotività e credibilità e fra azione ed emozione. Come pecore in mezzo ai lupi può essere quindi considerato la cronaca di una battaglia, di un gioco di resistenza che impone freddezza e indifferenza. Del resto, fin dal principio, il film prodotto da Groenlandia, e affidato alla regista da Matteo Rovere, mette al servizio dei personaggi e dei loro comportamenti la fotografia, la scenografia, la macchina da presa, in altre parole la messa in scena.
La spietatezza della vicenda impone innanzitutto un estremo rigore formale. La luce è livida e bluastra, quasi da obitorio, perché Vera e Bruno, in fondo, giocano con la morte, e infatti hanno entrambi gli occhi cerchiati di nero quasi fossero zombie. Intorno a loro c'è molto granito e molto marmo e le linee sono dure, anche se l'aggettivo più adatto per descrivere lo stile del racconto è "secco". Attenzione, però: una scelta stilistica tanto precisa non esprime la totale assenza di speranza, perché nei corpi di Bruno e Vera, e nei loro volti, si legge il sentimento, che è compresso a tal punto da rischiare non di esplodere ma di implodere, e se un’esplosione ha conseguenze anche su ciò che circonda il soggetto, l'implosione si gioca tutta all'interno, con effetti ben più gravi.
Non racconteremo cosa accade ai due personaggi, ma chi li osserva con attenzione potrà leggere nel loro sguardo il destino a cui andranno incontro e immaginare il loro passato, che per la regista e gli attori è stato determinante per dare la giusta verosimiglianza alla storia e all'azione. A proposito di azione, non possiamo non dire che il colpo della gang italo-serba è filmato magistralmente, anche perché, in quasi ogni inquadratura del film, e a maggior ragione in questo caso, la Patitucci organizza con cura la disposizione dei corpi nello spazio visibile, talvolta mettendo a fuoco ciò che non è in primo piano, talvolta tracciando linee geometriche, talvolta ricorrendo a suggestivi campi lunghi.
Come in ogni buon crime, in Come pecore in mezzo ai lupi la sciagura è inevitabile per chi è stato guastato dalla famiglia e non ha imparato a difendersi, a schermarsi, mentre chi si è imposto una disciplina quasi monastica ha ancora una via di fuga. Ciò non significa che la fiamma della speranza, per quanto debole, si sia spenta, e a suggerirlo è una scena con un'attrazione di un luna park che porta Vera e sua nipote quasi a toccare un cielo azzurro sconfinato. E se un pseudo-lieto fine è possibile, dipende anche dal fatto che Come pecore in mezzo ai lupi non vuole giudicare nessuno, forse nemmeno quel cattivo che confessa a Vera di essere in credito con Dio da quando, a 23 anni, ha visto la figlia morire sotto le bombe. Ad eccezione di questo personaggio, gli altri villain sono incolori e stereotipati, un po’ come quando, negli anni Ottanta, nei film americani i terroristi erano sempre russi.
Fra Vera e Bruno, il secondo è meno a fuoco della prima, che riesce a esprimere un moto e un mondo interiore con una semplice espressione del viso. Il merito, naturalmente, è di Isabella Ragonese, a cui Lyda Patitucci ha affidato un personaggio molto complesso, una dark lady che, più che essere fatale, porta scritto negli occhi un dolore antico che le fa dire: "Anche io ho perso tutto, ma Dio non c'entra". L’attrice padroneggia perfettamente queste emozioni, ed è evidente quanto sia cresciuta negli anni. Anche Andrea Arcangeli appare più sicuro e consapevole, e con una sceneggiatura più incisiva avrebbe senz'altro connotato in maniera più precisa Bruno, ed è in alcune sequenze che lo vedono protagonista che il pregio del film, e cioè l’asciuttezza della narrazione, diventa anche il suo difetto number one.
Forse non si vede, ma Come pecore in mezzo ai lupi è ambientato a Roma. La città eterna ha perso tuttavia la sua bellezza, è come svuotata, sostanzialmente periferica e quindi quasi metafisica ma senza il fascino di un quadro di De Chirico. In un simile scenario un po’ distopico, a salvare è soltanto l’amore, ma solo quello di chi lo accetta e lo abbraccia. Bruno all'inizio non lo fa e dice alla sorella: "Ti odio perché ti voglio bene", e dicendolo sottolinea quanto il mondo descritto dalla Patitucci non sia un paese per indecisi né per quegli anaffettivi che prendono un cane e poi lo chiudono in balcone.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali