Cogan - Killing Them Softly: la recensione del film di Andrew Dominik
Anche i gangster soffrono la crisi. In estrema sintesi è questa la trama del terzo film firmato dal neozelandese Andrew Dominik.
Anche i gangster soffrono la crisi.
In estrema sintesi (in gergo si chiama logline), è questa la trama di Cogan - Killing Them Softly, il terzo film firmato dal neozelandese Andrew Dominik dopo l’esordio di Chopper e il successo internazionale di L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford. Se tra il suo primo film e il secondo Dominik aveva completamente cambiato stile, anche la sua opera terza rappresenta una brusca sterzata che lo conduce verso una nuova strada. Peccato che sia forse la mano convincente tra quelle che ha imboccato finora.
Sorta di logorroica storia pulp nella quale un impomatato Brad Pitt è un killer incaricato di far fuori tre ceffi che hanno fatto un colpo che non dovevano fare, Cogan - Killing Them Softly mette le carte in tavola fin da subito: sia per quanto riguarda la sua staticità (le scene d’azione o di violenza sono ben poche) che per il setting e le intenzioni sociopolitiche.
Per tutta la durata del suo film, infatti, Dominik occupa i pochi spazi di silenzio nei dialoghi incessabili dei suoi protagonisti con le voci di radio e tv che, raccontando la campagna elettorale per la presidenza americana di quattro anni fa e l’elezione di Obama, non fanno altro che parlare di crisi economica e finanziaria.
I soldi, e la loro mancanza, o il loro non essere abbastanza, sono l’unico vero motore di vicende intrecciate e ben ordite, il puntualizzare come anche il crimine e la sua manovalanza risponda ad esigenze e dinamiche di stampo finanziario, e come l’America sia una grande corporation, sembrano essere gli unici punti tematici e narrativi cari al regista.
Poi certo, appare evidente che, da un punto di vista puramente cinematografico, Cogan - Killing Them Softly abbia tentato una sorta di rivoluzione di un genere, negandone le aspettative e invertendo le proporzioni tra le parti.
Purtroppo tutto questo non è sufficiente: perché le intenzioni metaforiche sono troppo smaccate, troppo pedanti ed evidenti per non appesantire la narrazione, e perché nella sua rilettura di stilemi scorsesiani e tarantiniani, Dominik non è capace di avere personalità e mordente, troppo poco radicale nelle sue intenzioni rivoluzionarie e troppo compromissorio e ammiccante.
Di Killing Them Softly rimangono alcune belle linee di dialogo (sceneggiate dallo stesso regista), alcune interpretazioni (dopo Animal Kingdom, Ben Mendelsohn è una conferma) e alcune sequenze capaci di ricordare il notevole potenziale registico di Dominik.
Per dirla in termini finanziari, troppo poco per portare in attivo il bilancio del film.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival