Codice Genesi, la recensione del film con Denzel Washington
A nove anni da From Hell, i fratelli Hughes tornano in sala con un film che conferma la loro idea di un cinema che sospeso tra l’abbraccio al genere e ambizioni contenutistiche. A dagli man forte, un magnetico Denzel Washington.
Codice Genesi - la recensione
Post-apocalittico e sottotesto pseudo-religioso sono due delle recenti tendenze hollywoodiane che vanno innegabilmente per la maggiore negli ultimi mesi: meglio se combinate, come in questo Codice Genesi, brutto titolo italiano per The Book of Eli, diretto dai redivivi fratelli Hughes e scritto dall’esordiente Gary Whitta, vasta esperienza da videogame designer ed editor alle spalle.
Se il retroterra di Whitta è spesso e volentieri tradito da alcune scelte strutturali e dettagli sparsi di chiara derivazione videoludica, sarebbe del tutto sbagliato categorizzare Codice Genesi come un film-videogioco: senza voler darsi troppe arie ma non rinunciando a qualche ambizione contenutistica anche in un film che comunque non nasconde la sua natura primariamente di genere, i registi hanno assemblato un curioso cocktail che attinge indistintamente ai versanti più diversi dello spettro cinematografico.
Codice Genesi sembra aver preso lo scheletro di base de “La strada” di Cormac McCarthy (e curiosamente, specie nei suoi minuti iniziali, il film degli Hughes assomiglia fotograficamente e iconograficamente molto a quello purtroppo ancora idedito di John Hillcoat visto a Venezia), inserendo al posto della filosofia e del pessimismo di quella storia massicci riferimenti a Mad Max e allo spaghetti western, condendo il tutto con un’idea “forte” solo apparentemente legata alla religione e alla religiosità in senso stretto. Perché “il libro di Eli” non viene descritto e raccontato come testo vocazionale e spirituale in senso stretto, ma come strumento: uno strumento che innegabilmente ha (avuto e avrà) un ruolo importante nella Storia dell’uomo, che può venir letto e utilizzato con modalità differenti, antitetiche, per l’appunto strumentali. E che nella rifondazione delle comunità umane raccontata nel film è destinato a divenire una delle tante pietre su cui ricostruire un futuro.
In fondo, sembra quasi che il libro di Eli sarebbe facilmente potuto essere un altro, e che i fratelli Hughes lo utilizzino anche loro come un mero strumento narrativo all’interno di un film che non va tanto per il sottile, che non gioca di sfumature ma procede abbracciando sempre più la sua grana di certo non sottilissima. Come il suo protagonista, Codice Genesi sembra in apparenza ricercare un andamento lento e ieratico, ma non ci pensa due volte quando c’è da utilizzare modi spicci e da menare le mani (con la sapiente consulenza di gente come Jeff Imada e Dan Inosanto).
In America qualcuno, criticando aspramente, ha definito Codice Genesi come il Waterworld di Denzel Washington (qui comunque magnetico ed efficace nella sua presenza): ma ammesso e non concesso che il paragone abbia senso, potrebbe essere colto in senso positivo. D’altronde, che il film dei fratelli Hughes non sia The Road è lapalissiano; ma non voleva nemmeno esserlo: il suo intento e il suo universo di riferimento sono ben altri.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival