Club Zero: la recensione del film di Jessica Hausner presentato al Festival di Cannes 2023
Jessica Hausner azzecca i temi, tenta la strada di un'estetica a metà tra Ulrich Seidl e Wes Andeson, ma il suo film è bidimensionale, presuntuoso, compiaciuto. La recensione di Club Zero di Federico Gironi.
Disturbi alimentari e cattivi maestri. La fragilità insita nella condizione adolescenziale, ma anche quella tendenza adulta, e recente, di voler trattare fin troppo con i guanti i ragazzi. Perché sono tutti speciali, tutti hanno qualche talento, tutti sono così sensibili, anche se competitivi.
I temi interessanti non mancano di certo a Club Zero. Ma Jessica Hausner riesce a mandare un po’ a ramengo tutto quanto, in un film furbo, svitato e manipolatorio come la protagonista che racconta. Una protagonista che si chiama Miss Novak, è interpretata da Mia Wasikowska, e è la nuova insegnante di un esclusivo collegio per giovani ricchi e (o) dotati.
La sua materia? Mangiare consapevole.
Quando incontra i suoi studenti - tutti assorbiti dalle tante questioni che assorbono gli adolescenti di oggi: l’emergenza ambientale, la sostenibilità, ma anche la loro forma fisica, o ancor più banalmente la media scolastica - Miss Novak inizia subito a snocciolare un gergo e un insegnamento a metà tra il new age e il salutismo. Con la sua aria nemmeno troppo rassicurante parla di respirazione, mindifulness, società del consumo, alimenti processati.
Fatto sta che da precetti in parte anche condivisibili, simili a quelli che anche noi leggiamo spesso sui giornali, Miss Novak inizia a spingersi più oltre, suggerendo, col piglio che usano gli insegnanti prescrittivi e carismatici, e quindi di fatto imponendo al suo gruppo, prima diete monotrofiche e poi l’astinenza totale dal cibo.
Perché si può vivere di niente, no? Pecoroni voialtri che vi hanno convinto del contrario, e che mangiate solo perché schiavi delle aspettative dei vostri genitori.
Anche quest’ultimo aspetto - quello di un mondo in cui vale oramai tutto, perché siamo nell’era della post-verità, dei gruppi su Facebook, di un fideismo cieco e del rifiuto della scienza - è interessante. Non bastano però i temi, a fare un film. Né basta la messa in scena, che in questo caso sembra nascere dall’unione nemmeno troppo insolita tra il rigore asettico, geometrico e privo di empatia del cinema di Ulrich Seidl (qui coinvolto nella produzione) e l’estetica stilizzata, coloratissima e bidimensionale di Wes Anderson.
Il tono è sospeso tra dramma e commedia, ma ben presto si capisce che non c’è molto da ridere: anche perché spesso si vorrebbe far ridere con i soliti siparietti che mostrano genitori assenti e concentrati su loro stessi, ricchi e incapaci di rapporto e autorità coi figli, adulti più problematici degli adolescenti: roba che abbiamo visto millemila volte, da decenni a questa parte. Per non parlare della tisana per il digiuno consapevole venduta da Miss Novak con la sua faccia stampata sopra.
Ma il problema vero è che, distratta dall’estetica e dalle strizzate d’occhio furbette, e dalle tante questioni che sceglie di affrontare, Jessica Hausner finisce per essere schiacchiata dalla voglia di mostrare quanto sia abile a gestire il materiale narrativo con gusto pop senza perdere in sostanza, e così facendo finisce nel presentarci un film banale.
Peggio: compiaciuto.
Senza alcuna forma di comprensione, senza alcuno spessore psicologico, senza il benché minimo interesse umano per i personaggi che muove come pedine sui suoi elegantissimi e rigorosissimi sfondi.
L’ultima inquadratura, una riproposizione dell’Ultima cena (ah ah ah, che ridere) con sguardo in macchina che vorrebbe tirare in ballo noi (in qualità di complici morali? di adulti che non capisco? chissà) è la pietra tombale fatta di presunzione e opportunismo che un film come questo merita. Noi, no.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival