Chiamatemi Francesco: recensione del film di Daniele Luchetti su Papa Bergoglio
Il regista evita l'agiografia e racconta un uomo preoccupato per il suo paese.
Stare dalla parte di un personaggio e rendergli giustizia è un
dovere che per un filmmaker o uno scrittore non dovrebbe mai passare attraverso la
santificazione, la difesa a oltranza, l’esaltazione e soprattutto
l’individuazione, in un percorso di vita più o meno lungo, di pretestuose
epifanie.
Che sia un John Doe qualunque o il capo della
chiesa, che nasca dall’immaginazione di un’artista o corrisponda a una
persona reale, nessun protagonista di libro, film, fiction o spettacolo teatrale dovrebbe
allontanarsi da ciò che prima di ogni altra cosa è: un uomo.
Lo sanno bene i grandi romanzieri e lo sa Daniele Luchetti, regista garbato che si
è lasciato prendere sottobraccio dal vulcanico produttore Pietro
Valsecchi per compiere un viaggio non solamente in Argentina, ma nel cuore e
nella parola di Papa Francesco.
Per l’autore di Mio fratello è figlio unico
l’inizio del cammino è stato insidioso e privo di appigli, fino a quando, nella
sua testa brulicante di pensieri, non si è accesa una lampadina: l’idea di
raccontare Jorge Bergoglio partendo dalla sua preoccupazione e dal suo
disorientamento di fronte alle aberrazioni perpetrate dalla dittatura militare di
Videla.
E’ così che Chiamatemi Francesco
ha preso una direzione e una forma: quella di un film a suo modo politico,
un film laico, sicuramente, nel senso di non teso all’evangelizzazione.
Luchetti, non a caso, non crede, e non ha cominciato a farlo durante o
dopo le riprese. A folgorarlo sulla via di Buenos Aires è stata piuttosto
l’umanità del futuro pontefice, insieme a una chiesa umile fatta di preti di
strada e di regole dettate più dalla coscienza che dagli imperativi dei vertici
ecclesiastici.
Senza essere un’opera controcorrente – come dimostra, ad
esempio, l’alto gradimento da parte del camerlengo Jean-Louis
Pierre Tauran – il biopic sul papa gesuita compie una scelta
comunque di rottura, perché ci porta fra le favelas devastate dalla
povertà e ci fa salire sugli aerei dai quali i sostenitori del Processo di
Riorganizzazione Nazionale gettavano nel vuoto i corpi addormentati dei presunti
desaparecidos.
Il regista questi orrori si limita a mostrarli e –
invece di spiegarne le recondite motivazioni o di nascondersi dietro
l’impersonalità di un banale reportage – gira un film che non
è poi così lontano dall’inchiesta, dal giallo storico. Con coraggio,
inoltre, tralascia completamente la retorica della “chiamata”, insistendo su
una vocazione che si traduce principalmente in azione.
La poesia e la commozione
arrivano dopo, nel presente, a compimento di un percorso personale che si conclude con la
vittoria non di un singolo, ma di una nazione, e che quindi diventa un momento
cinematografico di rara intensità, capace di smuovere perfino quanti non si lasciano
ispirare dalla parola di Dio.
Altra ammirevole impresa di Chiamatemi Francesco
– sempre nel nome del rispetto della verità – è
l’impiego di due attori argentini per i ruoli di Papa Francesco
giovane e vecchio. Con una storia così succosa per le mani, quanti registi avrebbero
resistito alla tentazione di fare un film star-driven, sfruttando un nostro volto
noto da spingere in una direzione opposta alla sobrietà? Ben pochi.
Luchetti mette a ragion veduta davanti alla macchina da presa Rodrigo De La Serna e Sergio Hernàndez, che attraversano il film con
l’anima segnata dalle cicatrici dei lutti nazionali e lo sguardo illuminato da un
orgoglioso senso di appartenenza.
Entrambi somigliano a
Bergoglio, ma – liberi dagli strati di trucco che
l’invecchiamento e la ricerca di perfezione solitamente richiedono –
più che riprodurne movenze, abitudini e atteggiamenti, lo evocano, perdendosi
serenamente nel suo sorriso, quel sorriso che più di ogni altra cosa dà
speranza alla gente.
Chiamatemi Francesco, infine, non fa del lucido e colto seguace di Ignazio di Loyola l’unico attore del suo dramma a lieto fine. No, intorno a Jorge ragazzo e uomo si agitano una serie di personaggi perfettamente a fuoco, a cominciare da tre figure femminili forti e combattive: la giudice Alicia Oliveira, la professoressa di chimica Esther Ballestrino e una suora che protegge due sacerdoti perseguitati dal regime. Non ci meraviglia che abbiano il giusto spazio e la stima del protagonista. Papa Francesco – lo sappiamo bene – crede nelle donne e sostiene le loro battaglie.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali