Che strano chiamarsi Federico - la recensione del film di Ettore Scola

12 settembre 2013
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Né propriamente documentario, né del tutto cinema di finzione, e nemmeno cinema del reale, Che strano chiamarsi Federico! è un omaggio affettuoso, uno di quei ricordi che un amico fa di un altro, in occasione di qualche ricorrenza.

Che strano chiamarsi Federico - la recensione del film di Ettore Scola

Né propriamente documentario, né del tutto cinema di finzione, e nemmeno cinema del reale, Che strano chiamarsi Federico! è un omaggio affettuoso, uno di quei ricordi che un amico fa di un altro, in occasione di qualche ricorrenza.
Certo, gli amici in questione si chiamano Ettore Scola e Federico Fellini, e allora l’operazione non è mai così ingenua come sarebbe potuta risultare altrimenti. Non è scevra da scivolate, certo, ma sono tutte figlie di una nostalgia affettuosa e dolciastra che, quasi, contagia perfino lo spettatore.

Dopo una lunga parte iniziale nel corso della quale Scola ricostruisce l’arrivo di Fellini a Roma, il suo ingresso nella redazione del Marc’Aurelio e, invisibili, nel mondo del cinema, nonché i loro primi contatti giovanili, Che strano chiamarsi Federico! decolla quando entra nel dietro le quinte del Fellini già adulto e famoso: i suoi pellegrinaggi notturni in auto, con Scola come fedele accompagnatore e personaggi presi dalla strada come passeggeri e interlocutori, sono l’occasione per affidare alla vera voce del regista – rubata ad alcune interviste – i suoi pensieri sull’arte, sul cinema, sulle donne.

Allo stesso modo di una semplicità e di un’affettuosità quasi commoventi i fugaci e pudichi riferimenti a Giulietta Masina così come a quelli, più diffusi e scanzonati, sul rapporto di Fellini e dello stesso Scola con Marcello Mastroianni.
È proprio attraverso l’attore, largamente utilizzato sia dall’uno che dall’altro, che si giunge ad uno dei frammenti più memorabili di Che strano chiamarsi Federico!, quello che racconta i provini fatti per il Casanova da Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman: tutti e tre straordinari, ma con un Gassman che lascia il segno da vero Mattatore.

Sul finale, si torna alla malinconia e al dolore oramai dolci per la perdita di un amico che in qualche modo continua a vivere, ma sempre con la voglia di fare una festa, di inneggiare alla vita e all’arte, di salire su una giostra.
Di ricordare con uno sberleffo (suo) un uomo, un artista, un adorabile bugiardo e, a modo suo, un inguaribile monellaccio.

 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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