Carta bianca - la recensione del film di Andrés Arce Maldonado

25 giugno 2014
2.5 di 5
2

Tre vite ai margini che si intrecciano in una Roma poco vista al cinema.

Carta bianca - la recensione del film di Andrés Arce Maldonado

Fare un film non è mai facile, e quando non si può contare su un budget e un'organizzazione adeguata può diventare un vero incubo. Ma c'è gente disposta a tutto pur di portare sullo schermo la storia che deve raccontare e che, di fronte alle porte chiuse in faccia da persone che magari la reputano troppo dura o poco appetibile, si rimbocca le maniche, investe i propri soldi e coinvolge altri che credono nel progetto a lavorare al minimo (o allo zero) sindacale. E' certo ammirevole che l'abbia fatto anche Andrés Arce Maldonado, colombiano trapiantato da tempo in Italia, alla sua opera seconda dopo l'apprezzato Falene, con un film il cui spunto nasce da un fatto di cronaca: la morte per assideramento, a Ferrara, di Said, un giovane ragazzo africano, nell'indifferenza generale, la notte di San Valentino del 2010.

Col suo sceneggiatore Andrea Zauli, il regista cerca di immaginare le storie, le relazioni, i percorsi di vita che possono aver portato un ragazzo così giovane a una fine del genere, e mette in scena una periferia dell'anima raramente vista nel cinema italiano recente, che preferisce ignorare le vite ai margini che popolano i nostri quartieri di giorno e soprattutto di notte.

La storia è ambientata tra San Lorenzo e Corviale, a Roma, una città dove si è perso da tempo il senso del valore dell'accoglienza ma dove, volontariamente o meno, continuano a confluire migliaia di disperati. Sono tre i personaggi scelti dagli autori: Kamal, un giovane tunisino che si arrangia con lo spaccio ma ha ben altre aspirazione nella vita, un'imprenditrice italiana fallita, vittima delle minacce di un cosiddetto cravattaro, e una ragazza moldava sfuggita alle violenze della prostituzione coatta e impiegata come badante proprio dall'anziano usuraio che ricatta la donna. Le loro vite si incrociano, in un giorno e una notte, tra desiderio d'amore e disperazione, fino alla tragica fine del protagonista.

Ci è piaciuta del film l'idea di raccontare il sottobosco, il sommerso di una metropoli, una realtà multietnica di emarginazione e paura, in cui la carta è tutto: che sia denaro, contratto, permesso di soggiorno o altro, rappresenta il diritto di essere come gli altri, la speranza di diventare "normali" e confondersi tra la folla.

Rispetto ad altri film realizzati con budget prossimi allo zero la recitazione è nell'insieme buona e la regia è curata ed efficace. A convincerci meno è semmai la sceneggiatura, che invece di assecondare lo stile scarno del racconto per immagini operando per sottrazione, accumula temi e sottotrame non necessarie che rischiano di confondere lo spettatore, e - nel tentativo di renderli più universali - sottrae umanità ai personaggi caricandoli di una valenza simbolica troppo pesante per le loro esili spalle.

Qualche siparietto e qualche tema forte di meno avrebbero senz'altro giovato al realismo di un film che, proprio per questi difetti, non riesce a coinvolgerci e a farci indignare come purtroppo la cronaca è ancora capace di fare.



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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