Cari compagni! recensione del film di Andrey Konchalovskiy in concorso al Festival di Venezia 2020
Il regista russo Andrey Konchalovskiy racconta un fatto di cronaca realmente accaduto, il massacro di un gruppo di scioperanti nell'Unione Sovietica del 1962 con stile misurato ed elegante in Cari compagni! in concorso a Venezia 77.
1962, Unione Sovietica. Un momento di passaggio per il paese. A nove anni di distanza dalla sua morte, la figura di Stalin è ancora presa come punto di riferimento dalla popolazione, oltre dalle gerarchie nel frattempo giunte al potere, mentre gli effetti della Seconda guerra mondiale ancora condizionano reduci e famiglie, ancora sconvolte dal bilancio senza precedenti di 25 milioni di morti. “Quando c’era Stalin i prezzi scendevano, ora salgono”, si dicono alcuni abitanti della città di Novocherkassk, nella Russia meridionale, oblast di Rostov, nel film di Andrey Konchalovsky, Cari compagni!, che racconta la tensione di una popolazione sempre più colpita dai costi alti dei beni alimentari, in rivolta contro “gli accaparratori” e in generale il potere; prima a parole e poi manifestando il dissenso con slogan durante una manifestazione pacifica affrontata con violenza, passando alla storia come un massacro vero e proprio, anche se messo sotto silenzio fino alla fine dell’URSS.
Assistiamo ai fatti attraverso la storia di un membro dirigente del partito comunista locale, Lyudmila detto Lyuda, convinta militante dagli ideali ortodossi duri e puri e nessuna pietà per ogni forma di dissidenza. Fino a che assiste a una sparatoria nei confronti di dimostranti inermi in una fabbrica di locomotive. Un uso della forza bruta per reprimere uno sciopero, arma così connaturata ai natali del movimento comunista, che la fa inorridire, cambiando la sua visione del giusto e sbagliato, e dei drammatici fatti che seguono. Ci sono molti feriti, rastrellamenti di sospetti, spesso gente comune senza precedenti di alcun tipo, neanche politici, condanne sommarie, coprifuoco. In questo contesto la sparizione della giovane figlia, ribelle come può esserlo una ragazza, non di più, la porterà nel cuore della parte oscura del regime e della reazione spropositata di quelle ore.
Sono tre le generazioni della casa in cui entriamo nel film. C’è Lyuda, al massimo della sua carriera seppur giovane, rispettata, sempre con la busta della spesa piena di quello che desidera, servita a parte, mentre la popolazione soffre razionamenti e scarsità, poi c’è la giovane figlia, che vede più i limiti e le costrizioni che le impediscono di sognare un futuro, rispetto alla rassicurazione di una società governata rigidamente, e infine c’è il nonno, il padre di Lyuda, reduce di guerra che reagisce alla strage vestendosi di tutto punto con la divisa che gli ricorda quando aveva un valore e non veniva tradita per sparare sulla propria gente.
Uno dei momenti cruciali della storia, in cui una nazione ancora ingenuamente legata alla vittoria della guerra, e agli ideali staliniani che la permisero, iniziava a svegliarsi, con sempre più chiare le contraddizioni fra gli ideali e la loro messa in pratica. Un crollo di miti e convincimenti radicati che sconvolge Lyuda, e conduce noi spettatori all'interno di in un viaggio nel ventre molle del regime. Prima per lunghi minuti all’interno della catena di comando politica e militare del potere che decise per l’intervento, a livello regionale e a Mosca, poi all'interno di ospedali occupati da KGB e militari, con cadaveri sbattuti ovunque, come in obitorio o nelle fosse comuni in cui vennero gettati alcuni cadaveri. Proprio questo tentativo di rendere anonima ogni opposizione al potere, rifiutando in questo modo di riconoscerla, è uno degli automatismi più insopportabili che Konchalovsky rende con abilità in un resoconto asciutto e fedele, attento a piccoli particolari e all’atmosfera, in un bianco e nero soffocato da una ratio 4:3 rispettoso dell’epoca.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito