Blue Bayou: la recensione del dramma sull'immigrazione in America con Alicia Vikander
Un uomo ha sempre vissuto nella zona di New Orleans, adottato da genitori coreani. Il dramma dell'immigrazione in America al centro di Blue Bayou, diretto e interpretato da Justin Chon, al fianco di Alicia Vikander.
L’immigrazione asiatica in America era al centro di una delle sorprese della scorsa stagione dei premi, Minari. In quel caso si raccontava di una famiglia coreana alle prese con una nuova vita rurale americana negli anni ’80. Un decennio in cui un bambino di pochi anni viene dato in adozione a una famiglia della Louisiana, nel nuovo film di Justin Chon, che ne è anche protagonista. Anche lui di origine coreana, con Blue Bayou, oltre a riferirsi alla canzone omonima di Roy Orbison degli anni ’60, mette in evidenza quel senso di malinconia diffuso nelle umide terre di palude lungo il fiume Mississippi che circondano New Orleans. Il bayou, per l’appunto.
Antonio è ormai un uomo, è sposato con una donna che ama molto, Kathy (Alicia Vikander), con cui vive, insieme alla figlia di lei, Jessie, avuta da un compagno precedente. Un poliziotto che ancora vive nella stessa zona, allontanato dalla piccola dalla madre per il suo comportamento violento. Nonostante questo cerca di riavvicinarsi, imponendo con piccole arroganze quotidiane il suo distintivo, anche nei confronti di Antonio. Una famiglia che lotta, si confronta con un presente complicato, fatto di piccoli lavori sporadici, per lui, e di giornate infinite a spaccarsi la schiena, per lei. Chon costruisce il film con una costante aderenza emotiva dei protagonisti con lo scenario naturale unico in cui vivono. Dalla campagna pregna di energia pronta a esplodere ai tramonti di malinconica bellezza lungo il fiume che bagna la città, New Orleans.
Un presente che per Antonio è vissuto in proiezione verso un futuro che dovrebbe regalare, finalmente, una svolta economica, per dare alle due donne della sua vita quello che meritano. Un classico del cinema indie americano lontano dagli epicentri, focalizzato sulle marginalità, con un sogno che avvicinandosi si allontana. C’è poi il passato che tormenta Antonio. La famiglia adottiva che l’ha circondato di violenza e traumi, più che di amore. Ma anche la sua stessa identità, quei ricordi della madre naturale in Corea che ogni tanto riemergono. Un uomo che ha conosciuto un solo paese, ma che improvvisamente si trova sotto minaccia di venire deportato verso una realtà che non ha mai conosciuto, completamente aliena e di cui non conosce neanche la lingua, ovviamente.
Blue Bayou trasmette tutta la passione civile del suo regista, la sua sincera volontà di denunciare un assurdo legale, qualche cavillo irrazionale che ha condannato, e continua a condannare decine di persone adottate a dover lasciare gli Stati Uniti. Una dimensione etica visibile in maniera fin troppo esplicita specialmente nei troppo finali, in cui Chon abbandona il suo tentativo di equilibrare il brutale realismo sociale con uno stile visivo liricheggiante, non privo delle forzature deteriori del cinema indie americano più derivativo. La retorica insistita allontana la presa emotiva dello spettatore, inondato da una sequela di immagini che ripropongono l’acqua, la palude, come liquido amniotico capace di dare la vita, ma anche di toglierla.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito