Blackhat - la recensione del film di Michael Mann con Chris Hemsworth
Il regista americano firma un nuovo capolavoro che segna il punto di non ritorno di un'idea di cinema.
C’è una scena, che in Blackhat arriva abbastanza presto, che rivela molto del film di Michael Mann. Appena scarcerato per collaborare con l'FBI nella caccia a un pericoloso cyberterrorista, l’hacker Nick Hathaway si blocca sulla pista di un aeroporto, vicino alla scaletta del jet che lo ospiterà a bordo, a contemplare il vasto spazio aperto che si apre davanti ai suoi occhi. Si tratta di uno dei tanti momenti di distrazione (dello sguardo e dalla storia) che Mann dissemina nei suoi film: e, come sempre, ha un significato particolare e ben specifico.
Perché se Blackhat - che non a caso parte da un vero e proprio disastro, quello di una centrale nucleare - è un film catastrofico, che parla della catastrofe in senso drammaturgico e filosofico, mette allora i suoi protagonisti e noi spettatori di fronte alla necessità di rispondere, in fretta, a un interrogativo: ora che la catastrofe è avvenuta, che il disastro del presente ha azzerato e raso al suolo tutto (e paradossalmente ci ha regalato una libertà forse mai avuta prima), cosa facciamo di tutto quello spazio libero - da ricostruire, da rioccupare con la nostra presenza - che troviamo di fronte e dentro di noi?
Con Blackhat, quindi, arriva il momento di dare risposte, di fare delle scelte.
Il momento in cui il tempo non è più fortuna, non è più qualcosa al quale aggrapparsi momentaneamente in attesa che il destino faccia il suo corso, come in Miami Vice, ma un elemento da piegare con l’azione alla nostra volontà e alla nostra individualità, per quanto difficile possa essere.
"I'm doing the time, time isn't doing me," dice Nick.
Scelte difficili, senza dubbio, che si devono compiere in un panorama ambiguo e pericoloso, contro tutto e contro tutti: letteralmente controcorrente, risalendo il flusso avverso degli eventi e delle tante catastrofi che sono disseminate lungo il percorso da fare. E che a maggior ragione vanno affrontate con determinazione: la stessa che hanno Nick e Lien nel difendere il loro amore apparentemente impossibile e nel proseguire un cammino intrapreso, nel completare un disegno che da pubblica giustizia diventa di privata vendetta. Con la determinazione e la flessibilità dell'acqua, per parafrasare Bruce Lee.
Perché così è necessario per loro, per i loro cuori, per la loro coscienza.
Perché per ricostruire e ricostruirsi, è da sé stessi e dai propri sentimenti (dai propri valori) che si deve ripartire.
Allo stesso modo, Mann fa quindi di Blackhat un film che riparte da sé stesso per dirigersi verso il futuro che gli interessa, incurante degli obblighi e del contesto.
Il suo stile raggiunge livelli di astrazione e di ellissi sconvolgenti, estremizzando quanto già mostrato nel Miami Vice di cui questo film è la diretta e parossistica evoluzione: con la libertà d’azione di chi non ha nulla da perdere, Mann elimina i raccordi, amplifica gli strappi spazio-temporali, non dimentica le distrazioni (quello mai), eppure proprio per questo va diritto al cuore delle cose e delle psicologie.
Il suo cinema non è più lineare, e non lo è mai stato tanto: esplode le scene e le azioni moltiplicando le inquadrature e restituendole nella loro interezza col montaggio, come scomposte da un prisma; e subito dopo asciuga il linguaggio fino all'essenzialità, quasi al minimalismo, capace così di aprire abissi di significato in un semplice e lineare passaggio campo/controcampo, o di dare il massimo risalto a una battuta appoggiata quasi distrattamente in momenti che interlocutori sono solo in apparenza.
Nel contesto conflittuale e anarchico che li circonda, Nick e Lien sfidano ogni regola e ogni convenzione, rimangono fedeli a sé stessi e ai loro sentimenti, all'amore, al dovere, all'amicizia; e compiuta la loro missione (che è la loro affermazione di identità e volontà) avanzano per mano, determinati, verso un futuro ancora incerto e nebuloso, svanendo come fantasmi sugli schermi del controllo tradizionale e lasciando terra bruciata alle loro spalle.
Allo stesso modo Mann, con Blackhat, raggiunge e supera il punto di non ritorno della sua idea di cinema, certo delle sue intenzioni e delle sue capacità; lascia dietro di sé, invecchiata di colpo di 10 anni, la forma-cinema hollywoodiana tradizionale e avanza verso il futuro con un film che si muove attraverso il racconto e l’immagine in modo ipertestuale, che occupa con modalità nuove e tutte digitali, come quelle della Rete, lo spazio sconfinato che il suo stesso gesto di rottura gli para davanti.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival