Black Sea - recensione del thriller sottomarino con Jude Law
Un film sporco, duro e ruvido dal regista de L'ultimo re di Scozia.
Quando Kevin MacDonald e Dennis Lee Kelly hanno dato il via al brainstorming che li ha portati a immaginare la claustrofobica avventura del Capitano Robinson e dei suoi sottoposti, avevano un obiettivo preciso: fare un film duro, sporco e realistico, un thriller “di soli uomini ma non per soli uomini” in cui a essere “nero” non fosse solo il mare scelto come ambientazione della vicenda, ma anche l’anima dei personaggi – o almeno di alcuni di essi.
Che queste missioni siano state portate felicemente a compimento appare evidente fin
dalle prime scene sotto la superficie dell’acqua, quando in un sottomarino piuttosto
malmesso comincia a concretizzarsi la possibilità di una doppia battaglia: il conflitto
con i georgiani, che potrebbero accorgersi del passaggio del sottomarino, e le frizioni fra i
due gruppi etnici che compongono l’equipaggio (russi e scozzesi).
Regista
e sceneggiatore, del resto, conoscono bene i trucchi del mestiere e sanno che le storie che
rispettano le unità di luogo, tempo e azione sono quelle più cariche di
tensione. Sanno inoltre che il motore di ogni buona avventura è il conflitto, e che
introdurre un elemento di sorpresa a tre quarti del film è un’ottima maniera
per riaccendere l’interesse del pubblico.
Ora, in questa consapevolezza dei meccanismi drammatici che funzionano meglio non bisogna leggere una mancanza di spontaneità o una fredda premeditazione, perché c’è molto cuore nel nuovo film dell’autore de L’ultimo re di Scozia. Per lui il plot di ferro è solo una solida base su cui poggiare le fondamenta di una riflessione su una working class desiderosa di arraffare la ricchezza dei potenti ma destinata a una guerra fra poveri in cui chi viene ucciso diventa istantaneamente inutile carne morta. Nel gioco al massacro nessuno ha torto e nessuno ha ragione, i russi non sono i cattivi e nemmeno gli scozzesi. Il nemico forse è l’oro, che scatena l’avidità generale e che, insieme ad alcuni atteggiamenti dei personaggi, contribuisce a dare a Black Sea una texture epica, un po’ alla Rapacità di von Stroheim. Qui però lo scenario non è la Valle della morte, ma un indolente dinosauro di ferro che la macchina da presa esplora in ogni anfratto, insistendo sul disagio provocato da cabine troppo anguste, leve arrugginite, radar malfunzionanti. Più lo spazio si riduce e più intense e primordiali diventano le pulsioni, prima fra tutte la paura di restare intrappolati. Non vogliamo svelare chi riuscirà a uscire dal mostro marino, ma a rimanere negli abissi è certamente la mascolinità di ogni singolo marinaio, minacciata dalla schiacciante presenza tutta femminile del mare.
E’ un film di ottimi personaggi secondari Black Sea
. Ognuno di loro si definisce attraverso poche battute, brevi pennellate che solo
uno sceneggiatore che ha lavorato nel tempio della parola (il teatro) sa dare.
E
poi c’è Jude Law, immenso, sempre a fuoco.
L’impressione è che per lui Black Sea sia stato un rito di
passaggio, l’occasione per una performance che ha segnato il suo pieno ingresso
nella maturità artistica. Spogliato della sua aria un po’ dandy e un
po’ metrosexual, l’attore è un colosso di ruvidezza
scozzese e di muscoli sudati. E’ lui che lega tutti gli elementi del film, un film che
punta all’entertainment, ma che, al contrario di tante storie marine
targate Jerry Bruckheimer, non ha nulla di patinato e di lezioso.
Con tutto il rispetto, non ci troviamo nel magico mondo della Disney. Siamo fra i talenti della vecchia Europa, di quella Gran Bretagna che è stata capace di regalarci i capolavori del Free Cinema.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali