Black Phone, la recensione di un horror adulto e crudele, decisamente riuscito
Arriva al cinema Black Phone, tratto da uno dei primi racconti di Joe Hill, che nelle mani di Scott Derrickson diventa un horror vecchio stampo, adulto, crudele e pieno di tensione. La recensione di Daniela Catelli.
Dopo la visione di Black Phone, la prima, spontanea reazione è stata: finalmente! Dopo aver visto negli ultimi anni decine di horror per teenager quasi tutti uguali, edulcorati e poco originali o film “d'autore” pretenziosi e cupi, ci volevano Scott Derrickson e il suo sodale C. Robert Cargill alla sceneggiatura per restituirci il piacere di un film di genere sensato, adulto e crudele, che riesce a trasporre un racconto fantastico in una realtà dettagliata, violenta e plausibile come quella della provincia americana di fine anni Settanta. Dal breve racconto omonimo del 2004, incluso da Joe Hill, degno erede del padre Stephen King, nella raccolta Ghosts del 2007, Derrickson confeziona per Blumhouse un film che rimanda nelle atmosfere proprio agli horror ispirati alle storie paterne realizzati negli anni Novanta, quando la violenza di una società patriarcale e punitiva, soprattutto nei confronti delle donne, era parte integrante della narrazione fantastica.
In questo senso, Black Phone è un film vecchio stile, che ci riporta ad un horror più realistico e dipinge un aspetto dell'America che non è mai purtroppo scomparso e oggi riemerge in tutta la sua reale crudeltà nelle stragi di innocenti a colpi di arma da fuoco, che sembrano – ma purtroppo non sono – tratte da uno di quei romanzi. Simile in questo a King, in questa storia Joe Hill accosta al tema soprannaturale elementi tratti dalla cronaca o ad essi ispirati. Nel dicembre del 1978, sotto la casa dell'insospettabile buon cittadino John Wayne Gacy, titolare di una ditta di costruzioni con buoni rapporti coi politici, che alle feste amava vestirsi da Pogo il clown, vennero scoperti 33 cadaveri di adolescenti, che in una stanza segreta e insonorizzata l'uomo aveva rapito, drogato, torturato e ucciso. Impossibile non pensare a lui quando entra in scena in Black Phone il sadico The Grabber, il Rapace, il finto clown con una mostruosa maschera sul volto a caccia di adolescenti (i palloncini – neri stavolta – sono forse l'elemento più bizzarro della storia, quasi sicuramente un omaggio di Hill al capolavoro del padre, It) in una città del Colorado. Cinque sono le vittime dell'inafferrabile rapitore e nessuno ha idea di chi le abbia rapite, se non la sorellina dell'amico di uno di loro, che vede nei suoi sogni quello che succede.
I protagonisti sono orfani di madre e il padre affoga nell'alcool il dolore per la morte della moglie, che ha trasmesso alla ragazzina il suo dono/maledizione. È un mondo degradato e violento, dove l'adolescenza è un periodo terribile da affrontare tra bullismo e botte, vige la legge del più forte e la cinghia è lo strumento punitivo per eccellenza (una delle scene più strazianti del film coinvolge la piccola protagonista, vittima della rabbia paterna). Si gioca a baseball e si va in bicicletta tra le villette a schiera, ma questo non è un mondo spielberghiano: la vita, i sogni, i primi amori e l'innocenza vanno in frantumi nello spazio di un incontro casuale e fatale, lasciando dietro di sé dolore e terrore. Proprio per questo il protagonista, Finney, ultimo ragazzo rapito dal mostro, viene aiutato dalla furia di chi l'ha preceduto nella sua lotta per sfuggirgli e vendicarli. Black Phone è un film che tiene altissima la tensione e fa male quando deve farlo. Scott Derrickson riesce a tenere miracolosamente in equilibrio e senza esagerare in un senso o nell'altro (cosa che non gli era riuscita del tutto a parer nostro in Sinister) toni che potrebbero sconfinare nel grottesco o nello splatter fine a se stesso.
C'è spazio anche per l'umorismo (affidato a Max, personaggio fuori di testa del suo attore feticcio James Ransone), ma si fa, sempre, sul serio. Parte non indifferente del merito va anche agli attori, a partire dai giovani che interpretano le vittime, alla bravissima Madeleine McGraw, che interpreta la sorellina di Finney, un Mason Thames intenso, fragile e forte, che racchiude in sé le contrastanti energie e desideri di un adolescente come tanti. Discorso a parte per uno straordinario Ethan Hawke, che sotto una maschera da demone orribile (e a modo suo bellissima, creazione del grande Tom Savini e del suo collaboratore Jason Baker), col suo sguardo scintillante e crudele e il modo stesso di parlare (se potete, vedetelo in originale), pregusta lo svolgimento del suo gioco di morte, emblema di tutti i padri cattivi e perfetta incarnazione del Male. Da amanti dell'horror non possiamo che compiacerci del ritorno di Scott Derrickson (dopo il suo ottimo Doctor Strange) ad un mondo che ama, che capisce e a cui sa rendere giustizia.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità