Billy: la recensione del film di Emilia Mazzacurati

01 giugno 2023
2.5 di 5

La figlia di Carlo vira in salsa indie-andersoniana luoghi e atmosfere del cinema parterno, e porta sullo schermo un'insolito e sbilenco racconto di formazione. La recensione di Billy di Federico Gironi.

Billy: la recensione del film di Emilia Mazzacurati

Billy ha 19 anni. È un ex bambino prodigio che vive con una mamma che dire stravagante è dire poco e senza un papà: quello se ne è andato di casa che Billy era ancora bambino, non ancora prodigio. Vive con la mamma, che è svampita, umorale, fumatrice accanita, priva di ogni senso pratico e scrupolo economico in una villetta a schiera vicino a un grande fiume. Gioca con i ragazzini del posto, è innamorato di una coetanea che pare filarsi tutti tranne lui, ogni tanto si confida con la ragazza che gestisce un chiosco vicino alla ferrovia. E poi un giorno nella sua vita arriva anche Zippo, ex stella del rock che pare passare la sua vita a scappare, chissà da cosa.

Emilia Mazzacurati, nemmeno trentenne, un corto di successo alle spalle, esordisce nel lungometraggio con un film insolito, strampalato, decisamente coraggioso, nel quale mescola a modo suo, non sempre in maniera omogenea, influenze di tipo molto diverso tra loro.
Da un lato c’è l’eredità, che non è solo generica e geografica, di papà Carlo: quindi certo, il fiume, la pianura, la provincia, ma anche un certo modo di approcciare le inquietudini e la non conformità, i sentimenti e l’umorismo lunare.
Dall’altro c’è l’ombra lunga di quel cinema indipendente americano che ha visto in Wes Anderson il suo campione, ma che, tanto per fare un nome, ha prodotto anche il Jared Hess di Napoleon Dynamite. Di Anderson comunque qui c’è tantissimo. Tantissimo dei Tenenbaum, per dire, dalle dinamiche tra figlio e genitore passando per certi riferimenti più o meno espliciti a Salinger, e al Salinger dei "Nove racconti" in particolare.

La cosa più curiosa, in questo mondo ibrido, e forse un po’ troppo derivativo, in questi ambienti che paiono nascere dalla sovrapposizione delle estetiche di Ghirri e di Hopper, e che Emilia Mazzacurati ha steso sopra tutto - immagini, personaggi, situazioni e storie - una patina d’amarezza che supera i confini generazionali, e non viene mai sollevata, nemmeno in un finale che pareva vagamente ottimistico ma che in fin dei conti lascia sospesi, incerti, di fianco a una pompa di benzina lungo una strada provinciale, mentre il nuovo anno è all’alba e il futuro un incognita.

Non è che tutto funzioni, in Billy.
C’è spesso un filo di maniera di troppo, personaggi come quelli di Battiston e di Gassmann sono caratterizzati con un tratto un po’ troppo marcato, e la vaghezza esistenziale che viene evocata e ricercata si può trasformare in evanescenza narrativa.
E però non si può riconoscere a Emilia Mazzacurati alcuni successi che sono tutti figli della voglia di prendere dei rischi, di mirare in alto, facendo dei luoghi e dei personaggi di Billy qualcosa di sospeso nello spazio e nel tempo, una frontiera quasi western che assomiglia a un limbo nel quale galleggiare per sopravvivere o dal quale fuggire per vivere.

Come fa il personaggio più marginale, eppure centrale e centrato del film, quello di una Carlotta Gamba non solo bella ma anche brava, la Penelope che gestisce il chiosco vicino alla ferrovia, e che cita le Wacky Races ma è tutt’altro che un cartone animato.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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