Berlinguer. La grande ambizione: la recensione del film
Andrea Segre racconta con grande efficacia la visione, l'iniziativa, la pratica di una politica che sembra essere oramai svanita, negare sé stessa. È questa la grande ambizione del film. Tanto rigorosa, generosa e ambiziosa era la politica di Berlinguer, tanto lo è il cinema del film che lo racconta. La recensione di Berlinguer di Federico Gironi.
La via democratica al socialismo. La questione morale. L’eurocomunismo. Il compromesso storico. Enrico Berlinguer è stato un uomo politico coraggioso, visionario. Ambizioso. Forse, più semplicemente, è stato un uomo politico vero. Uno che necessariamente, quindi, doveva avere grandi ambizioni.
Non è un caso allora che questo film che lo racconta, e che ha un titolo quasi più sfacciato che eloquente, si apra con un esergo di Antonio Gramsci, politico e filosofo importante per la sinistra, certo, ma anche studiato e ammirato a destra. Un esergo che recita: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo”. Né è un caso, considerato questo esergo, che questo film si chiuda - prima delle immagini di repertorio del funerale di Berlinguer, con un milione e mezzo di persone in piazza San Giovanni a Roma - con una scena in cui Berlinguer, il Berlinguer privato, scrive una lettera alla moglie Letizia in occasione del loro anniversario di matrimonio, una lettera in cui si scusa per i sacrifici che lei, la loro relazione e la loro famiglia hanno dovuto fare per via del suo impegno politico.
Come a dire, non fosse stato chiaro abbastanza fino a quel momento, come Enrico Berlinguer avesse sempre messo, non senza dolori e sacrifici, la dimensione collettiva, e quindi politica, del suo essere, davanti a quella privata.
Non è però una questione di elogio del sacrificio, di una via quasi monastica all’impegno politico basato sulla massima sobrietà.
Semplicemente, Andrea Segre e il suo sceneggiatore Marco Pettenello hanno voluto raccontare, attraverso uno spaccato della vita di uno degli uomini politici più importanti della storia italiana, repubblicana e non, cosa voglia dire - ancora, nonostante tutto - fare politica.
Questa, la loro grande ambizione. In anni in cui la politica sembra aver abdicato non solo alle ideologie ma agli ideali, aver abbracciato le forme più populiste di consenso e partecipazione, giustificato e realizzato la negazione esplicita di sé stessa (l’antipolitica), ecco che Berlinguer. La grande ambizione mette sullo schermo, assieme al suo protagonista, un’idea di politica alta, nobile. Seria. Capace di inseguire ideali di libertà e giustizia anche a costo di sfidare il (suo stesso) dogma.
All’inizio del film, incontriamo il Berlinguer di Elio Germano in Bulgaria, all’indomani del colpo di stato che, in Cile, ha ucciso Salvador Allende e dato il via alla dittatura del generale Pinochet. Berlinguer sta scrivendo un discorso al riguardo, e in una delle prime frasi che gli sentiamo pronunciare dice una frase importantissima, per il film e per l’idea che porta avanti: “Nessun uomo serio potrebbe negare che…”.
L’importanza non sta nel sottolineare quel che viene dopo la congiunzione (nel caso specifico, le responsabilità degli USA nel colpo di stato cileno), ma nella formulazione che la precede. Perché nessuna persona seria potrebbe negare, al di là di ogni credo politico, l’importanza storica di Enrico Berlinguer, la modernità e la visione alta e morale della sua politica, e ancora di più l’importanza di una passione politica che mette al centro, con rigore e serietà, il bene collettivo e non quello privato, di pochi o di pochissimi.
Di una politica fatta di visione, certo, ma anche della voglia e della capacità di realizzarla, modulando il rispetto delle proprie idee con la necessità di comunicare e collaborare col prossimo, financo con l'avversario. Di saper fare compromessi e di non chiudersi in un massimalismo stantio e niente affatto identitario, nel nome dell'unità di un paese diviso e lacerato.
È chiaro, quindi, che quello di Segre non è un film santino, ma un film che cerca, attraverso l’esplicita differenza tra quel passato e il nostro presente, un dialogo sicuramente polemico ma mai distruttivo con la politica di oggi. Ed è chiaro che la lingua cinematografica scelta da Segre per farlo è perfettamente coerente con quello che racconta.
Berlinguer. La grande ambizione è un film serio, sobrio e rigoroso anche dal punto di vista del cinema. È un film che bada alla sostanza e agli obiettivi, ma che non dimentica mai la necessità di produrre una visione. È un film che l’immagine - spesso precisa, filologica, perfino elegante - la costruisce sempre su delle fondamenta fatte di idee, e che le parole - importanti, importantissime - le utilizza sempre e soltanto in considerazione del loro peso, della loro capacità evocativa e mimetica, della loro morettiana importanza.
Anche per questo - e non solo in virtù della misura e della serietà della recitazione - la galleria di personaggi che affollano le scene del film, i dirigenti del PCI, i papaveri della Democrazia Cristiana, che Segre accompagna sempre, la prima volta che appaiono sullo schermo, con una didascalia che ne indica nome e cognome, non regala mai l’effetto bagaglino. E tanto più l’estetica del film di Segre ci parla filologicamente del passato, tanto più rimpiangiamo ciò che passato è, ingiustamente, senza tracce.
Concentrandosi sugli anni che vanno dal 1973 alla fine di quel decennio chiave nella storia del nostro paese, Berlinguer. La grande ambizione racconta la rottura del PCI berlingueriano con l’URSS, il storico risultato elettorale che portò i comunisti italiani al 34%, il sogno della trasformazione di un paese. Inevitabile, però, che tutto questo, e in particolare quel sogno, finisse in qualche modo subordinato non tanto all’idea del compromesso storico, quanto alla sua tragica conseguenza: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che con Berlinguer (e con Luciano Barca a fare da supporto e ponte), stava cercando di far diventare realtà l’ingresso del PCI nella maggioranza di governo.
Così, ecco che il film di Segre si pone, con tutta la dignità di cui è capace, in grado di dialogare a distanza con l’Esterno notte di Marco Bellocchio (nel quale, a dirla tutta, il segretario del PCI non usciva poi così bene). Lo fa nel raccontare una pagina cruciale della nostra storia, uno snodo tutt’altro che politico che ha spinto con la violenza di mani misteriose il paese in una direzione forse non naturale.
E però, anche nel raccontare quella tragedia, ecco che Berlinguer. La grande ambizione si pone il problema e l’obiettivo di non perdere di vista quel che realmente gli sta a cuore: mostrando quindi, in una scena dura e asciutta, quando Enrico Berlinguer disse alla sua famiglia “se capita a me, non trattate, anche se dovessi cambiare idea”.
Perché ancora una volta a lui, e non alle BR o a chi per loro, stava a cuore più la dimensione collettiva che non quella privata. Il bene di uno stato, più della sua stessa vita. Il bene di una cosa fondamentale, che si chiama libertà.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival