Bella e perduta, la recensione del film di Pietro Marcello
Un film complesso e diretto al tempo stesso, opera di un regista che lavora col cinema in maniera alchemica.
Pietro Marcello prende del colore intenso e purissimo: quello del documentario, della favola, del folklore, della Storia, della spiritualità e della filosofia. Poi, con impura precisione, fa cadere una goccia di ognuno di questi colori nell'acqua amniotica del suo cinema. E i colori, a contatto con quel liquido, si spandono, si mescolano, le gocce assumono nuove forme che si mescolano e sovrappongono, che precipitano e risalgono in superficie, in una danza dove tutto è distinguibile e tutto e nuovo e diverso.
È così che nasce Bella e perduta, dalla nobiltà artigianale di un autore che non è interessato alle meccanicità standardizzate dell'industria né alla precisione scientifica e un po' asettica di un cinema d'autore laboratoriale, ma che affonda volentieri nei fanghi di quell'alchimia che contamina scienza e magia, razionalità e misticismo, che mira all'astrazione eterea della metafisica sporcandosi le mani con le terre, i materiali, le sostanze fisiche della vita.
Nell'alambicco di Bella e perduta, perdono senso le distinzioni tra alto e basso, registri e temi, personaggi reali, figure narrative, creature del mondo animale. La storia e il suo tempo diventano piatti e circolari, le simbologie esplodono come le sineddoche di un racconto in equilibrio costante e impossibile tra complessità colta e intellettuale e semplicità evidente e diretta.
Contraddizioni, forse, costanti e ripetute, reiterate con un senso quasi anarchico e sovversivo di libertà, che sono piccoli e grandi momenti di catastrofe; immagine dopo immagine, inquadratura dopo inquadratura, implodono ed esplodono ciclicamente l'energia e il senso storico, civico, pedagogico, favolistico e magico di un film sconvolgente.
Marcello non si preoccupa di tenere assieme la storia, vera, di Tommaso Cestrone, l’Angelo di Carditiello, le immagini di repertorio delle manifestazioni popolari nella Terra dei Fuochi, le sequenze animistiche e in soggettiva di un bufalo che parla con la voce (fuori campo) di Elio Germano), il vagare di un Pulcinella psicopompo ribelle e i pastori che declamano D'Annunzio, la decadenza dolorosa della Reggia e quella di campagne e territori mortificati, abbandonati, violentati da uomini che non comprendono più, non rispettano più, non sanno (più) ascoltare.
Non se ne preoccupa perché sa che tutto si tiene assieme da solo, come assieme stanno sempre, e da sempre, il mondo dei vivi e dei morti, il passato e il presente, ciò che è sopra il suolo e ciò che vi si nasconde: basta abbandonarsi e raccontarli con il medesimo rispetto e la stessa visionaria sensibilità.
Bella e perduta è un film misterioso e luminoso, capace di lasciare addosso, in sospensione nel sangue e negli occhi, le polveri dell'indignazione civile, della Storia e del suo senso, quelle del racconto magico e fiabesco inevitabilmente metaforico. Polveri che si sedimentano sulle lastre fotografiche di immagini in 16mm di enorme potenza visiva, imposte con grazia da Marcello strutturando così vari livelli di senso che precipitano e collassano nel macroscopico e nel microscopico, alternativamente.
Bella e perduta, allora, è la Reggia, ma anche l’Italia; la speranza per un futuro sostenibile e l'anima umana; belle e perdute sono la vita, il suo senso, e l'arte del cinema; o la Terra dei Fuochi e la spiritualità; la cultura di questo paese e la sua possibilità di riscatto.
Belli e perduti siamo tutti noi, e film come quello di Pietro Marcello, l'alchimista, ci regalano la l'opportunità di ritrovarci, e di spingerci verso un nuovo, realizzabile, futuro.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival