Assandira: recensione del dramma di Salvatore Mereu presentato al Festival di Venezia 2020
Uno scontro generazione fra l'anima radicata nella tradizione sarda e un giovane che torna dall'estero e vuole forzarla alle esigenze del profitto in Assandira di Salvatore Mereu.
Un pastore anziano si dispera nella notte sotto la pioggia, cercando fra i resti di un casolare distrutto da un incendio, nel buio, insieme ai carabinieri. La sua voce fuori campo, insistita, sussurrata ai limiti dell’inintellegibiità, non si dà pace: “per lui Assandira era una cosa seria e ci ha lasciato la vita”. Lui era il figlio, emigrato anni prima per lavorare come cameriere e tornato non da molto, con una moglie tedesca che aveva un figlio in grembo durante il dramma, e la volontà di sfruttare la bellezza atavica della sua terra e le abilità “molto pittoresche” del padre come pastore per creare Assandira, un agriturismo con una dose abbondante di folklore locale un tanto al chilo capace di mandare in sollucchero gruppi organizzati (e lobotomizzati) di turisti.
La cornice è questa, il dramma del dopo. Spesso si ritorna sul luogo dell’incendio con Costantino, il pastore interpretato da un’icona della Sardegna come Gavino Ledda, autore di Padre padrone da cui i fratelli Taviani trassero poi un film vincitore della palma d’oro a Cannes. Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Giulio Angioini, non casualmente antropologo all’Università di Cagliari, pubblicato da Sellerio, Assandira segna il ritorno di Salvatore Mereu, nel suo film più identitariamente sardo, allo stesso tempo una difesa delle radici agresti e della tradizionale figura del pastore dell’entroterra - qui il mare non lo si vede neanche -, e un’analisi di come il tempo che passa e l’irruzione della modernità abbia dato uno scossone al rapporto fra padre e figlio, con le giovani generazioni che hanno abbandonato l’isola per poi tornare con una visione diversa del mondo.
Costruito come un thriller, sporco del marcio del legno bruciato insieme alle speranze e ai conflitti, Assandira è un oggetto poco classificabile e sgusciante, la storia di tre persone che costantemente cozzano una contro l’altra, incapaci di ascoltarsi, rudi e inquiete. Costantino, il padre, Mario, il figliol prodigo e la moglie Grete, un donnone decisa a far fruttare l’agriturismo con spettacolo. Giocano con le radici, con l’antica vita agropastorale e come tali vengono visti da Costantino come invasori pericolosi, anche se deve lottare contro il legame di sangue che lo lega al figlio e uno strano rapporto con la stessa nuora. Moderno e arcaico si scontrano in un film disturbante, capace di creare un’atmosfera ancestrale di grande interesse, di rappresentare la “fazione” identitaria sarda con profondo rispetto e profondità.
Purtroppo però, preso da una totale identificazione in Costantino, regala le briciole morali agli “invasori che arrivano dall’esterno”, tratteggia i turisti (e la nuora corruttrice del figlio) come una specie di banda di subnormali in visita safari, arrivando all’estremo di tratteggiarli come appena giunti da Sodoma e Gomorra, pronti a riti satanico orgiastici. È davvero così sbilanciata la dovuta riflessione sempre più attuale sulla convivenza fra locali e “stranieri”, fra turismo, parlando oltretutto di agriturismo e non di speculazioni poi così invasive, e tradizione agreste? È davvero la chiusura a riccio nel passato la soluzione?
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito