Another Year - la recensione del film di Mike Leigh

31 gennaio 2011
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Quattro stagioni, un anno di vita di diversi personaggi che ruotano intorno a Gerri e Tom, una coppia felice cui la vita ha regalato tutto: loro figlio Joe, gli amici Mary e Ken, il fratello di Tom, Ronnie, e altri ancora. Ma se la vita dei due coniugi appare perfetta, lo stesso non si può dire per gli altri.

Another Year - la recensione del film di Mike Leigh

Another Year - la recensione

Quattro stagioni, un anno di vita di diversi personaggi che ruotano intorno a Gerri e Tom, una coppia felice cui la vita ha regalato tutto: loro figlio Joe, gli amici Mary e Ken, il fratello di Tom, Ronnie, e altri ancora. Ma se la vita dei due coniugi appare perfetta, lo stesso non si può dire per gli altri.

Dopo l’insolita convenzionalità di Vera Drake e l’irritante, nevrotico entusiasmo progressivo di Happy-Go-Lucky, con Another Year Mike Leigh si riappropria di uno stile a lui più congeniale e costruisce un film dalle molteplici parole e dalla narratività piatta, dove non esistono né progressioni né strappi, bruschi cambiamenti di ritmo o pendenza; ché le vicende dei personaggi che racconta procedono inerzialmente, scivolando quasi con dolcezza lungo il falsopiano della vita.
Falsopiano lungo il quale, pare sostenere Leigh, le andature e gli stili possono essere diversi, ma sono quelli a fare la differenza: per quanto la scelta non sia solo e soltanto nostra.

Il sereno ma netto contrasto tra l’armonica felicità di Gerri e Tom e le diverse difficoltà incontrate nella vita dai loro amici e familiari vengono raccontate dal regista inglese con pacifica accettazione e nella fortunata assenza di personaggi come la Poppy del suo ultimo film, rimpiazzata dalla nevrotica Mary di Leslie Manville. Perché, se il Gordon Gekko di Wall Street 2 sosteneva di aver imparato che “è il tempo, il bene più prezioso”, è il tempo che scorre il vero protagonista, per Leigh.
Un tempo neutro, ma con il quale si deve fare i conti, che si deve cercare di sfruttare nella maniera più opportuna. Quale che essa sia, possibile che sia. Senza ricette, se non quella di una presa di coscienza di ciò che è si vuole. E sono inutili tanto i vittimismi di chi sente mancanze, quanto i sensi di colpa di chi è stato più abile e/o fortunato.

Affidandosi al consueto manipolo di ottimi interpreti, e con uno sguardo che è attento ai piccoli dettagli quanto al fiume di conversazioni che sono la spina dorsale del suo film, Leigh mira ad una conquista dolce del suo pubblico, a un placido coinvolgimento, a delle epifanie sussurrate e mai dirompenti. E ben comunica gioie grandi e piccole, dolori e imbarazzi. Dei personaggi e della vita.
Ma è anche vero che questo stile e basato su un movimento inerziale, rischia a tratti di farsi inerte; che le sfumature scadano a volte in coloriture eccessivamente tenui o manieratamente ricercate. E alla fine il pregio caratteriale di un film basato sull’assenza di forti leve emozionali esplicite si trasforma anche nel suo limite.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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