Angels Wear White: recensione del film cinese presentato in concorso al Festival di Venezia 2017
Perdita d'innocenza, nuove generazioni abbandonate e condizione femminile raccontate in un dramma misurato e imploso.
In una piccola cittadina costiera, una sorta di Pesaro cinese, sorge in riva al mare una gigantesca statua di Marilyn Monroe che ritrae la diva nella celebre posa di Quando la moglie è in vacanza.
È all’ombra di quella statua, di quel sogno di una certa femminilità e di una certa possibilità di essere donna che verrà radicalmente negata, che si svolgono le vicende di Angels Wear White, quelle di una dodicenne stuprata in un hotel da un potente locale che vuole mettere a tacere la cosa, e della receptionist adolescente di quello stesso albergo che deve tenere la bocca chiusa su quel che ha visto e sa per non perdere il lavoro.
A dispetto della durezza delle situazioni che racconta, non è un film violento, quello di Vivian Qu, né un melodramma urlato e magari un po’ morboso.
È, invece, un film imploso, come implose sono le due giovanissime protagoniste, schiacciate dagli avvenimenti e - ancora di più - da una società che le sfrutta economicamente e sessualmente, e che piega i loro sogni (il loro sguardo su Marilyn, sugli amici, sui genitori, sul futuro), alle sue meschine esigenze.
Come e più che in altre parti del mondo, dice implicitamente Angels Wear White, che non è solo un racconto d’infanzia violata, o di assenza e violenza del mondo adulto - il problema è come il genere prescriva in maniera oppressiva e pervasiva quello che si debba fare o ciò che si possa diventare.
La verginità, più che lo stupro, è il vero cuore tematico di questo film. Si parla di continuo di imene: l’imene che lacerato prova la violenza, quello che si vuol far ricostruire chirurgicamente una delle figure femminili del film, quello inviolato della giovane receptionist, alla quale si dice esplicitamente che “c’è gente disposta a pagare bene per una vergine.” Una verginità che è metafora di una innocenza persa in maniera irrimediabile, nelle cose che capitano come in quelle che vengon fatte accadere.
La verginità di uno sguardo che s’illude di poter trovare una sua strada nel mondo, e che vede il suo sogno cadere, come cade la statua di Marilyn, abbattura e portata via da un camion che incrocia la receptionist in fuga, da sola (come sole sono le nuove generazioni cinesi), verso un orizzonte che forse non esiste.
Un film onesto, sebbene non imprescindibile né originale, quello di Vivian Qu, che non si appoggia mai esclusivamente al tema e all’impegno, e non si dimentica che il cinema è e a bisogno anche di qualcosa in più.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival