Anche io: la recensione del film sul caso Weinstein e la nascita del MeToo
Film sul giornalismo virato al femminile, e intriso di sacrosanto femminismo, ma senza retoriche inutili, fervori polemici o piagnistei vittimisti. Preciso, misurato, dritto al punto. Recensione di Federico Gironi.
Un film come questo non era facile. Anzi, direi che era difficile. Molto difficile.
Non tanto perché si tratta dell’ennesimo film sul giornalismo: genere solidissimo e (perlomeno da alcuni) amatissimo che comunque, da Tutti gli uomini del presidente in avanti, arrivando a casi recenti come Il caso Spotlight o, a modo suo, The Post di Steven Spielberg, sembra aver già detto tanto, tantissimo, sulle dinamiche e sulla professione.
Un film come Anche io era difficile perché quel #MeToo che viene citato nel titolo è un argomento ancora di scottante attualità, e tutt’ora al centro di un dibattito pubblico che vede alcuni commentatori - non solo maschili, anzi, c’è da dire - evidenziare come una rivendicazione sacrosanta abbia in alcuni casi portato a degenerazioni per cui si tende credere a scatola chiusa alla “vittima” autodichiaratasi tale e necessariamente mettere alla gogna e poi cancellare il presunto colpevole solo e soltanto sulla base di questioni di genere. Così come, sempre per fare alcuni esempi, le derive estreme del movimento siano diventate, a volte, delle scorciatoie per fare carriera.
Il punto, in ogni caso e checché se ne pensi, è che sarebbe stato facile per Maria Schrader girare un film non solo femminile e femminista, com’era giusto che fosse, ma anche carico di una militanza arrabbiata e per questo magari un po’ miope per la quale il nemico diventava il maschile tout court. Un film un po’ forcaiolo, magari, e per questo sbilanciato.
Invece.
Invece ecco che Anche io è un film che, proprio grazie alla sua compostezza - che è una compostezza narrativa ma anche formale - riesce a essere solidissimo da un punto di vista cinematografico e perfettamente a fuoco, e quindi efficacissimo, direi quasi letale, dal punto di vista politico.
La storia, lo sappiamo, è quella che ricostruisce l’indagine giornalistica delle reporter del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey (rispettivamente interpretate, qui, da Zoe Kazan e Carey Mulligan, entrambe molto brave) sui casi di abusi e violenza commessi da Harvey Weinstein nel corso di anni, e per altrettanti anni rimasti coperti da un silenzio fatto di omertà, vergogna, paura e complicità.
Ci sono due donne, quindi, per la prima volta al centro di un film sul giornalismo. Due donne che e faccia a faccia con un'indagine capace di scuotere i loro cuori e i loro cervelli molto da vicino, per ovvie ragioni, e che Schrader - con la complicità della sceneggiatrice Rebecca Lenkiewicz - racconta non solo senza tentazioni agiografiche o superdonnistiche, se mi passate il termine, ma anzi tratteggiando con poche e incisive pennellate una condizione femminile che è messa a dura prova non solo dalle circostanze del lavoro, ma anche da quelle piccole e grandi fatiche e problematiche quotidiane che ogni donna, e ogni uomo consapevole, conosce bene.
Se questo modo di raccontare le sue protagoniste, mettendone in evidenza tanto i meriti professionali quanto i lati umani, debolezze comprese, le rende efficacissime e coinvolgenti, allo stesso modo Anche io ha l’intelligenza di non fare mai del suo invisibile villain, di Harvey Weinstein, un orco che in qualche modo assume statura cinematografica, e che per questo diventa capace di flirtare con la perversa fascinazione che certe figure negative, negativissime, al cinema riescono ad avere.
Il Weinstein di questo film è semplicemente ciò che è stato: un uomo laido che ha approfittato del suo potere, del suo fisico e delle circostanze per commettere abusi e violenze che non andrebbero mai e poi mai commessi. Abusi e violenze che suscitano una indignazione forte e viscerale soprattutto grazie alla caparbia volontà di Schrader di non indulgere mai, nemmeno per un’istante, in una spettacolarizzazione che sarebbe diventata, in qualche modo, complice, se non altro inutilmente voyeuristica.
I drammi e gli orrori raccontati da Anche io sono affidati alle parole e alle ricostruzioni delle sue protagoniste (e di attrici come Samantha Morton e Jennifer Ehle, solo per citarne due), che al massimo, con grande suggestione cinematografica, sono accompagnate da immagini di corridoi e camere d’albergo vuote.
A tratti veramente potente, sempre coinvolgente, Anche io è un film di movimento e di parola, di orgoglio e rivendicazione, di giustizia e giornalismo.
Un film la cui misura, la cui precisione, la cui forza tranquilla, ha la capacità di smuovere le coscienze e le consapevolezze proprio come l’indagine che racconta è stata capace si smuovere l’immobilismo di un sistema corrotto e schifoso, e che è capace di suscitare un’indignazione assai più lucida e profonda di quelle isteriche e passeggere che le nevrosi internettiane o di un giornalismo anni luce lontano da quello di Kantor e Twohey, e di certo New York Times, sono non solo in grado ma, spesso e volentieri, vogliose di suscitare solo per il piacere dello scandalo, del clic a basso costo, del vedere aizzati gli istinti della folla senza che ci sia dietro una razionalità, una misura, un ragionamento.
Per questo, Anche io rappresenta un passo avanti notevole, e seriamente costruttivo, migliorativo direi anche, per le stesse istanze e per lo stesso movimento che racconta: che non sono solo femminili e femministe, ma dovrebbero riguardare tutti, per umanità e giustizia, indipendentemente dal genere di appartenenza.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival