Anatomia di una caduta: la recensione del dramma di Justine Triet Palma d'oro a Cannes 2023
Fra il dramma e il thriller processuale, Anatomia di una caduta segna il ritorno in concorso al Festival di Cannes di Justine Triet che si affida alla tedesca Sandra Hüller nel racconto di una morte sospetta all'interno di una famiglia nelle Alpi francesi. La recensione di Mauro Donzelli.
Una questione di coppia. Dietro alle dinamiche thriller e alla struttura da dramma processuale, la francese Justine Triet ha realizzato con Anatomie d’une chute la sua personale indagine sulla vita all’interno dell’intimità di un nucleo familiare, fra l’amore coniugale di una coppia e quello ancestrale per un figlio. Una delle esponenti della nuova ondata di cinema francese nata a cavallo degli anni ’80, la Triet parte nel suo racconto da un evento scatenante che sconvolge la quiete iniziale di una vita fra le Alpi innevate, in uno chalet di legno delle montagne francese. Una caduta, come ci dice il titolo, che provoca un’onda lunga che riporta a galla incomprensioni e complessità nella vita amorosa di due scrittori. Il problema è che uno dei due, Samuel, è protagonista in contumacia, in un’assenza che si trasforma in continua rievocazione da parte di altri, visto che è lui a cadere, e morire con una ferita alla testa, all’inizio del film.
In casa c’era solo la compagna, Sandra, mentre il figlio di 11 anni, Daniel, non vedente dopo un’incidente anni prima, è poco lontano in giro per i boschi innevati insieme al suo fedele cane. Forse l’unico membro della famiglia capace di unire l'amore con una costante funzione utile per la suo quotidianità. Un cane guida, lo mostrerà poi il film, capace di esserlo anche per l’indagine, e in seguito il processo, che presto indirizzeranno i sospetti proprio su Sandra, essendo l’unica possibile colpevole. Sempre che si sia trattato di una caduta con aiuto, un omicidio, visto che le analisi scientifiche - una volta esclusa la caduta accidentale - sembrano portare a una conclusione che suona come un dubbio: suicidio o spinta dopo un forte colpo con un oggetto mortale?
Per una volta, Justine Triet abbandona l’ironia e il disincanto dei suoi primi lavori per affrontare con solenne gravità le relazioni personali fra due creatori di storie. Lei ha già all’attivo vari romanzi di un certo successo, mentre lui si è dedicato soprattutto all’insegnamento e vorrebbe finalmente trovare il suo spazio - dopo averne concesso molto alla compagna - e scrivere un suo libro. Finalmente. Per farlo, la convince a lasciare Londra, dove si sono conosciuti e innamorati, per tornare nel paese di montagna da cui proviene. Se la creazione artistica di una regista e di un’attrice, alle prese con l’osservazione sempre più complice di una psicoterapeuta, erano al centro dell’indagine quasi poliziesca di Sybil, film precedente ma claudicante della Triet presentato in concorso a Cannes, in Anatomie d’une chute è lo scrittore- altro mestiere sospeso fra creazione e riproposizione della realtà, fra invenzione e manipolazione - a incuriosire.
Non solo, ci troviamo sempre con un protagonista alieno che si affaccia in un contesto non suo. Se Virginie Efira era una psicoterapeuta con la passione per la scrittura che si trova in un set cinematografico, qui è Sandra Hüller a interpretare una donna tedesca in terra di Francia. L’uso di una lingua franca come l’inglese è per il figlio agente di disturbo nella sua quotidianità costantemente francofona, mentre rappresenta la conferma dello status di apolide in esilio di Sandra, restia ad affidarsi al francese. Uno degli elementi di imbarazzo e disagio che emergono durante la dissezione autoptica all’interno della coppia rappresentato dal processo.
La Triet costruisce un film asettico eppure affascinante, in cui l’intimo diventa improvvisamente di dominio pubblico durante il processo, senza neanche il velo di sottile trasparenza rappresentato dalla finzione letteraria di una storia personale e autobiografica. Come in Victoria, è messa in scena e in rilievo una donna libera e come tale capace di provocare un disequilibrio nei rapporti giudati “normali” dell’opinione pubblica che assiste a un processo. Non deve essere simpatica, Sandra, e non lo è, mostrando in filigrana le fragilità e le paure, ma anche l’orgoglio e la rivendicazione di una vita inseguendo soddisfazione personale e professionale, se non addirittura la felicità. Senza che la rinuncia per l’altra metà della coppia si trasformi in rimpianto quando ormai è troppo tardi.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito