American Life - la recensione del film di Sam Mendes
A un anno e mezzo dal suo debutto nelle sale americane, viene distribuito in Italia il miglior film mai diretto da Sam Mendes. Nonché uno dei film più belli dell'anno.
American Life - la recensione
A un anno e mezzo dal suo debutto nelle sale americane, viene distribuito in Italia il miglior film mai diretto da Sam Mendes. Che continua ad occuparsi di un tema a lui evidentemente chiaro come la famiglia e le sue dinamiche; ma che dopo le urla, gli isterismi, i manierismi e gli anacronismi di Revolutionary Road trova finalmente una chiave e un tono tanto più efficace quanto più lieve e decisamente al passo con i tempi.
Certo, sostenere che American Life sia il miglior titolo di Mendes potrebbe non sembrare esattamente un complimento per lui: perché se questo è il film in cui ha avuto il coraggio di rendersi “invisibile” come mai prima, è anche uno di quelli che riaffermano la grande importanza, la centralità irrinunciabile della sceneggiatura. Che, in questo caso (e non a caso) è firmata da Dave Eggers e Vendela Vida: ovvero da uno dei nomi più importanti della letteratura americana contemporanea e la sua compagna, anch’essa celebrata scrittrice. E se American Life è davvero un film loro, perfetta conseguenza della loro attività letteraria, il mettersi del tutto al servizio di un copione di alto livello senza voler necessariamente farsi notare, e scegliere due protagonisti azzeccati e bravissimi come John Krasinski e Maya Rudolph, sono innegabili punti di merito per il regista.
E allora, dalla combinazione di questi elementi, ecco che American Life (pessimo titolo italiano per l’originale Away We Go) nasce e si forma, facendosi storia placidamente coinvolgente e sommessamente commovente, specchio delle ansie e delle speranze di tutta una generazione, riflessione esistenziale universale nel suo particolarismo.
Messi alle strette dalla nascita imminente di un figlio (“Are we fuck-ups?”: “siamo dei falliti?”, si chiedono), i protagonisti poco più che trentenni del film, Burt e Verona, partono per un’avventura on the road che travalica di molto la semplice richiesta di un luogo da chiamare "casa". Per un viaggio alla scoperta di sé stessi e del mondo, che li porta a dolorosi confronti con le loro (vere o presunte) inadeguatezze e con quelle della gente che si presuppone adulta e matura; “normale”; a scontrarsi con una realtà nella quale il concetto di identità, di maturità, di famiglia, sono tutti da ridefinire, da rinegoziare giorno dopo giorno, dove i modelli sociali e culturali non sono (più) saldi punti di appoggio ma occasionali appigli in fluttuante movimento, in costante trasformazione.
In questo contesto - che è il nostro contesto -, il viaggio di Burt e Verona non può allora che concludersi in un unico modo. Con la scelta di un luogo che è assieme passato e futuro, ritorno alle radici e al tempo stesso loro superamento. Un luogo (mentale più che fisico) che si riconosce, familiare, ma che è – e deve essere – anche nuovo. Una (ri)scoperta: calda, commovente, nel carico di significati che si porta appresso come nell'apertura incerta e trepidante verso un futuro tutto da costruire.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival