American Animals: la recensione dell'heist movie con una morale
Dopo il folgorante esordio col documentario The Imposter, Bart Layton si conferma col suo primo film di (quasi) fiction uno degli autori più dotati del cinema attuale.
È il 2003 quando, “un po' per noia, un po' per non morir”, due amici d'infanzia del Kentucky e studenti universitari, Spencer Reinhard e Warren Lipka (aspirante artista il primo, atleta borsista già coinvolto in giri illegali il secondo) organizzano una specie di banda, assieme ad altri due coetanei (Eric Borsuk e Chas Allen), per mettere a segno un colpo milionario: il furto di libri molto rari, custoditi sotto chiave in una stanza apposita e sorvegliata soltanto da un'anziana addetta, nella locale Transylvania University. Tra questi volumi c'è l'enorme “Birds of America” di John James Audubon, una raccolta in quattro volumi di ritratti di volatili a grandezza naturale, completata a Londra nel 1838 e molto ricercata dai collezionisti. Buttata lì senza troppa convinzione, l'idea venuta inizialmente a Reinhard si concretizza rapidamente. Ma la realtà non somiglia all'esaltante finzione dei modelli cui i nostri fanno ricorso, ovvero heist movie come Ocean's 11, Snatch e Le iene.
Nella vita reale, una volta varcato quel confine, superata l'invisibile e sottilissima linea morale che divide il bene dal male, non si torna indietro. Qualcuno si fa male, una povera donna terrorizzata si fa la pipì addosso, un colpo in apparenza a prova di bomba viene mandato all'aria dall'incapacità degli autori che non hanno calcolato l'uscita giusta e il peso specifico dell'oggetto da rubare. Dalla teoria alla pratica tutto cambia. E poi arriva il dopo, quando un dilettante del crimine deve fare i conti col senso di colpa, la paura e la vergogna. La sofferenza diventa man mano evidente sui volti dei veri protagonisti e degli attori che li rappresentano, perché arriva sempre il momento in cui si comincia a pensare al peso che una scelta del genere avrà sul proprio futuro, una volta scontata la pena per il crimine. Per questo American Animals è un heist movie con una morale, che mette in guardia contro la tentazione di sentirsi capaci di imprese straordinarie e non dice, banalmente, che il crimine non paga, ma lo dimostra con una storia assurda, a tratti surreale e molto divertente, ma che diventa quella di una sconfitta reale.
A motivare questi improvvisati rapinatori, almeno all'inizio, non è (solo) la prospettiva di guadagni milionari, ma una sfida con se stessi, per dimostrare che meritano di più e meglio della vita mediocre che si ritrovano a vivere. Come già aveva fatto col suo primo lavoro, il folgorante documentario L'impostore, Bart Layton crea un inedito corto circuito tra il vero e la sua rappresentazione, ibridando i due piani del racconto. Mentre de-costruisce un genere (un po' come fece Wes Craven con Scream) lo declina in modo esemplare. Lo spettatore resta incollato allo schermo durante le varie fasi della rapina, dalla progettazione all'esito, si diverte e si appassiona, viene condotto per mano dalla sapiente regia di Layton dentro il fatto, fin quasi a dimenticare il vero cuore della vicenda e a trovarsi sorprendentemente alle prese con un'altra e meno esaltante verità.
Inserendo gli attori al fianco degli interpreti, Layton evidenzia la distanza tra la realtà e la sua immagine hollywoodiana, una differenza non avvertita da questi giovani ambiziosi che hanno buttato il molto a loro disposizione in cambio di un improbabile troppo. È sicuramente difficile rassegnarsi a non essere eccezionali in una società come quella americana, basata su un'esasperata competitività: invece di ottenere il successo con la fatica, l'impegno, il lavoro e lo studio, è più allettante e diretto tentare di compiere qualcosa di straordinario per distinguersi dalla massa. Ma l'impresa eccezionale, come cantava un tempo Lucio Dalla, è essere normale.
Bart Layton si conferma con due soli titoli all'attivo come una delle voci più originali del cinema contemporaneo, e aggiunge un altro importante tassello alla sua indagine sull'enigma della mente umana. A suo agio sia con chi racconta quel che ha vissuto sia con chi lo rappresenta, ottiene ottime performance dai suoi attori (Evan Peters, Barry Keoghan e la veterana Ann Dowd su tutti, con un godibilissimo cammeo di Udo Kier) e confeziona un film elegante e capace di sorprendere e far riflettere a lungo. Alla fine della storia è una giustizia poetica a colpire chi ha cercato di monetizzare la cultura e conferire un valore materiale a opere inestimabili dal punto di vista dello spirito umano: per ironia della sorte uno dei libri che finiscono nello zaino di Spencer dopo la rapina è una prima edizione de "L'origine delle specie" di Charles Darwin. E fa sorridere chiedersi cosa penserebbe oggi il suo autore del grado di evoluzione raggiunto da questi sprovveduti animali americani.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità