America Latina, la recensione: il cinema ossessivo, spietato, umanissimo dei fratelli D'Innocenzo
Si spingono oltre, oltre Favolacce, i fratelli D'Innocenzo, ed esplorano territori fisici e psichici con un cinema che parla una lingua forte, nuova, ossessiva, sensibile. Con Elio Germano cadiamo in un paesaggio fatto di ansie, dubbi e fragilità, tra favolaccia gotica e horror psicologico. La recensione di Federico Gironi.
Sono andati oltre, i fratelli D'Innocenzo. Non era facile. Non era scontato. Ci voleva coraggio, una qualche dissennatezza, un pizzico di follia. Ci voleva del talento.
La suburbia romana post-burtoniana di Favolacce è diventata un territorio da incubo, pontino, dove entriamo precipitando in caleidoscopio d'immagini iniziali, cadendo nella tana di un bianconoglio inesistente, per finire in un paese dove altro che meraviglie: ansia, paranoia, orrore. L'orrore quotidianissimo che serpeggia sotto la superficie del nostro mondo.
Che si annida nelle cantine buie della nostra coscienza.
Massimo, il protagonista del film, in cantina - nella cantina di una villa che fuori sembra quasi la casa della strega di Hansel e Gretel, colorata e invitante, ma che dentro sembra il collegio di Suspiria - ci trova una ragazzina. Legata e imbavagliata.
Come ci è finita? A portarla lì sarà stato l'amico di bevute, che ha bisogno di soldi? La moglie che ama tantissimo? Le due figlie, bionde, angeliche, devote? Come ci è finita, e cosa fare?
Fuori dalla villa, la desolazione di una provincia anonima e inesitente, bar al neon che emergono dal buio, concessionarie di auto usate, cancellate e cani che abbaiano. Dove siamo? Chi siamo?
America Latina è un incubo. Un incubo pieno di amore: in maniera disperata.
È l'allucinazione di un uomo fragile, perché non amato e che, forse, non sa amare. Non come si dovrebbe.
Massimo, figlio di un padre che lo disprezza, uomo che disprezza sé stesso per la distanza da quel che vorrebbe essere. Padreche non riesce a trovare stabilità, a dispetto di tutta l'apparenza su cui può contare.
America Latina è una favolaccia, un horror psico-gotico, con tanto di torte fumanti, donne fatate, gonne fruscianti, piedi bagnati, luoghi vietati e sussurri rubati.
I fratelli D'Innocenzo confermano di essere tra i pochi, oggi in Italia e forse non solo, capaci di modi nuovi e personali per raccontare una storia. Il loro cinema parla una lingua fatta di immagini libere, di suoni taglienti, silenzi assordanti, dettagli minuziosi e vastità angoscianti.
Sono ossessivi, sono spietati, sono umanissimi. Anche nell'errore, che è figlio della voglia di rischiare, di esplorare. Di esporsi allo spettatore in tutta la loro scandalosa sincerità.
Con Favolacce avevano raggrumato quel malessere capace di essere percepito solo dalle anime più candide, sbattendolo in faccia agli adulti con ferocia silenziosa e naturale. In America Latina gli adulti non sono più spettatori inconsapevoli, ma protagonisti della crisi del mondo in cui vivono e che hanno creato.
La crisi di America Latina è personale e sociale assieme, maschile ma universale, raccontata secondo coordinate geografiche, psicologiche e cinematografiche che tira in ballo loro, i D'Innocenzo, tanto quanto gli spettatori, chiamati a far parte dell'esperienza e della visione dalla sirena irrestistibile di un cinema che osa e che si spinge oltre, assumendosi tutte le responsabilità e i rischi del caso.
Un cinema che ha il coraggio del dubbio, del mistero, e rifugge ogni tentatazione di facile assertività, destabilizzando ed entrando sottopelle trascinandoti nel vortice della sua estetica e del percorso del suo protagonista.
Fino in fondo. Qualsiasi cosa ci sia, in quel fondo.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival