Amanda: recensione del film con Benedetta Porcaroli
Amanda è l'opera prima di Carolina Cavalli, che ha voluto come protagonista Benedetta Porcaroli. Attraverso il suo personaggio, che è una giovane donna borderline, il film ci invita a riflettere sulla solitudine del nostro tempo e sulle madri che non insegnano l'affetto.
"Amanda è libera come una rondine sopra le nuvole della sua ingenuità" - cantava Al Bano a un Festival di Sanremo di qualche anno fa, e anche se la protagonista del brano aveva una storia diversa da quella di Amanda dal costume a fiori, anche il personaggio principale del primo film di Carolina Cavalli è libero e ingenuo. La libertà Amanda se l'è guadagnata da sola, ed è diventata l'unica risposta possibile alla famiglia borghese che le è capitata in sorte, da lei percepita come Inferno in Terra nonché emblema del conformismo e di un femminile algido, annoiato e rassegnato. Quanto all'ingenuità, il suo terreno di gioco sono i sentimenti, perché Amanda non ha dalla sua né la maturità emotiva né quell'accettazione dell'altro che è la base dell'amore e dell'amicizia.
Amanda, che ha ventiquattro anni, è rimasta bambina in questo senso, perché non si è mai presa una vera cotta per un amichetto di scuola né ha avuto un'amica del cuore con cui prendersi a cuscinate o disegnare cuoricini su un diario. E, in fondo, Amanda si veste ancora come una bambina: con le camicette con il colletto tondo e un cardigan di uncinetto di tutti i colori. Ma ai piedi la nostra ragazza dalle gambe lunghe e magre porta gli anfibi, e in quegli scarponcini un po’ grunge un po’ alla moda c'è la sua ribellione e un umorismo caustico che denota grande intelligenza e perfino una sconcertante autoconsapevolezza.
Amanda, che Benedetta Porcaroli interpreta magistralmente, cucendosi addosso la pelle del personaggio e non andando mai sopra le righe, è una che sa: sa di essere considerata una sfigata dai suoi coetanei, sa che vuole il contatto fisico e il calore umano, e sa che in un mondo iperconnesso come il nostro ognuno è rinchiuso nella propria bolla e condannato alla solitudine. Sono cose che accadono ovunque, e Carolina Cavalli fa bene a non connotare geograficamente l'ambientazione della vicenda - che diventa così un non luogo - e a non collocare la storia in un'epoca ben definita, conferendole un’atemporalità che rende il racconto archetipico e la protagonista un universale.
Ma cosa e chi rappresenta Amanda? La depressione post-adolescenziale che come una mannaia si è abbattuta sui giovani uomini e sulle giovani donne dopo due anni di Covid? Forse. E se diciamo forse, è perché la pandemia non ha certo aiutato, ma più che creare uno stato d'animo nuovo, ha intensificato il senso di inadeguatezza di chi non ha mai pensato di poter cambiare il mondo ma si è sempre sentito sbagliato, inopportuno. Amanda però rischia, è coraggiosa e determinata, e si va a riprendere Rebecca (Galatea Bellugi), l'unica amica che ha avuto da bambina. Con la sua personalità borderline è inoltre una guerriera, nonostante sia la vittima di un atteggiamento materno a metà fra l'indifferenza e la mancanza di personalità che genera impotenza. Madri così, si sa, rovinano i figli e soprattutto le figlie, perché non insegnano ad amare.
Poi ci sono le madri bambine, spaventate e che pigolano invece di parlare, e a rientrare in questa pavida schiera è la madre di Rebecca, che si è rassegnata di fronte all'autoisolamento della figlia, confinata nella propria stanza e in cura da una psicologa stupida e pretenziosa. Anche Rebecca è archetipica, dal momento che sempre più ragazzi e ragazze sono affetti, oggi, dalla sindrome di hikikomori. La malinconia del film investe anche questo personaggio, che forse non preme per uscire dalle pagine di una sceneggiatura come quello di Amanda, ma che in potenza è un outsider, una bimbetta dispettosa che si diverte a far esplodere miccette.
Nonostante la narrazione volutamente frammentata, Amanda procede con fluidità, spostandosi da un contesto al suo opposto, e quindi alla silenziosa villa con piscina della famiglia di Amanda, che quasi rimanda all’immobilità della morte, fanno da contraltare le luci al neon di una camera d'albergo, la musica a tutto volume di improbabili rave e paesaggi suburbani che ricordano i bassifondi delle zone periferiche. La regista è attenta a ciò che riprende e guarda alle sue due piccole donne con un distacco quasi sempre stemperato da un'infinita tenerezza. In fondo tutte le Amande del mondo chiedono affetto e salvezza. La nostra Amanda è selvaggia come il cavallo a cui porta da mangiare e capace di quelle pazzie che costituivano la materia di cui erano fatti i sogni delle generazioni più vecchie. Ma per le ragazze che invece sono più simili a Rebecca c’è bisogno di ascolto, della giusta fermezza e di un entusiasmo per la vita che sia contagioso.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali