Alien: Romulus: la nostra recensione del film di Fede Alvarez che riporta al cinema la saga
Arriva al cinema il 14 agosto Alien: Romulus, che cronologicamente si situa tra il primo film di Ridley Scott e il sequel di James Cameron. La recensione di Daniela Catelli.
Prima di parlare di Alien: Romulus, ci perdonerete un breve excursus sui film che l’hanno preceduto, lasciando perdere crossover cinematografici e seriali. Per quel che riguarda il cinema, viviamo da tempo nell’era delle saghe. Dall'originale nasce sequel, da sequel a un certo punto si torna al prequel, poi si fa il sequel del prequel, e via potenzialmente all’infinito, a meno che il pubblico non smetta di rispondere. Facendo questo, ovviamente si ampliano mondi creati da altri e si spiegano cose che forse era meglio lasciare avvolte dal mistero, nel tentativo di replicare una magia che resta unica, come la prima volta in cui si è prodotta. Nel 1979 uno slogan come “nello spazio nessuno potrà sentirti urlare” avvicinò il pubblico a una fantascienza horror che non si era mai vista così spietata, coi mostri pensati dalla geniale mente di H.R. Giger che si contrapponevano agli alieni buoni di Spielberg. Spietati predatori, parassiti, senza altra missione che riprodursi a nostre spese, facevano veramente paura. Gli spazi enormi e al tempo stesso claustrofobici dell’astronave Nostromo, dove il tenente Ripley, una donna di raro coraggio, restava da sola a combattere le creature che avevano infettato e divorato l’equipaggio, diventarono il nuovo territorio dei nostri incubi. La scena in cui la creatura squarcia il petto di John Hurt fece una straordinaria impressione su noi che la vedemmo al cinema, perché non sapevamo cosa aspettarci, vergini come eravamo di questi terrori alieni. Un Ridley Scott in stato di grazia, prima di Blade Runner realizzava un altro horror fantascientifico, dove la figura del sintetico, o androide, era già fondamentale e la sua ambiguità (di creati dall'uomo per seguire direttive) uno dei punti di forza della narrazione (e non a caso Scott lo renderà protagonista, addirittura doppio, dei suoi prequel).
Nel caso della saga di Alien, sia il bellissimo sequel di James Cameron, che il non del tutto riuscito ma interessante contributo di David Fincher e perfino quello – per noi il peggiore – di Jean Pierre Jeunet, dimostravano che la storia non era esaurita, non poteva finire così. Il collante principale però, oltre alle mostruose creature, era il personaggio di Sigourney Weaver e non a caso quando si avvicinò alla serie uno appassionato e competente come Neill Blomkamp, lei era ancora al centro della vicenda (abbiamo ancora davanti agli occhi le bellissime concept art realizzate per il film, che per un po’ sembrò si potesse fare). Ma Ridley Scott, diventato estremamente protettivo nei confronti di questa sua creatura, decise di non dare fiducia al regista sudafricano per riprendere in mano le redini e sfornare due prequel filosofici e spiegazionisti, sempre spettacolari ma in fondo più vicini nella struttura alle esplorazioni e ai temi dell’Enterprise di Star Trek che al modello originale. La fiducia non concessa a Blomkamp, invece, è stata data a Fede Alvarez, dopo i non esaltanti risultati al box office dei prequel, sulla base di un semplice “pitch” che collocava temporalmente la storia tra il primo e il secondo film della serie, ma con precisi (e, come abbiamo visto, perfino più abbondanti, riferimenti ai prequel).
Alvarez è un regista che prende molto sul serio i suoi compiti: lo ha dimostrato col reboot de La casa, dove però per noi la mancanza totale di ironia ha nuociuto alla rilettura di uno degli horror più originali e selvaggi di sempre. La serietà però nel caso di Alien era d’obbligo e bene ha fatto Alvarez a ricreare il senso di orrore e terrore, scegliendo un gruppo di giovani ignari, che nel tentativo di fuggire dalla vita di minatori senza speranza su un pianeta dove non c’è mai il sole, si trovano intrappolati in una stazione spaziale abbandonata e assediati dalle note creature, che – seguendo l’esperimento del David in Alien: Covenant – procedono sulla scala evolutiva facendosi sempre più forti e umanoidi. Questa scalcinata ma tecnicamente preparatissima ciurma di pirati nerd che cade dalla padella nella brace per sottrarsi alla schiavitù della Weyland Corporation, si aggira per lo spazio come un gruppo di teenager litigiosi e destinati, secondo le classiche regole dell'horror, a una bruttissima fine.
Senza fare spoiler sulla trama, diciamo che la sceneggiatura è poco più di un canovaccio che ricalca per molti versi la lezione del capostipite: quello che colpisce positivamente, soprattutto nella prima parte, è la capacità di Alvarez di riportare il film, spettacolarmente ed esteticamente (esemplare il lavoro sulla fotografia) al capostipite, senza dimenticare gli Easter Eggs per gli appassionati della saga, disseminati in modo neanche troppo nascosto in molte scene. C’è una bella tensione almeno per due terzi della durata, ma la ripresa di un personaggio col volto di un celebre e fondamentale attore, scomparso quattro anni fa, sia pure concesso dalla trama (i sintetici possono avere gli stessi lineamenti, visto che sono prodotti in serie), a noi è sembrata eccessiva. Qua, più che nel campo dell'omaggio, siamo in quello dello sfruttamento dell'immagine consentita dall’A.I. e sicuramente dagli eredi dell’attore morto, che saranno stati adeguatamente compensati ma non possono dire con certezza che il loro caro avrebbe apprezzato di apparire in una performance finta. Questo, confessiamo, ci ha allontanato dal film emotivamente.
Cailee Spaeny è brava nel ruolo della nuova Ripley e diventa velocissimamente un fenomeno e una macchina da guerra, aiutata dal “fratello” sintetico (David Jonsson, forse l’inserimento più interessante e riuscito), in un modo che perfino in un film di fantascienza e mostri spaziali richiede una massiccia sospensione dell’incredulità. E alla fine, per dare alla storia un senso che non sia il consueto ripetersi della decimazione dei personaggi, Alvarez spinge sull’acceleratore e dà vita a un nuovo mostro, che più che farci paura ci è sembrato uscire dal baraccone di una fiera di paese. Eppure una lezione Ridley Scott e James Cameron l’avevano data coi primi due film: mai esagerare, o, se lo si fa, farlo sempre gradualmente, con eleganza, senza sparare alla rinfusa i fuochi d’artificio col rischio di farseli esplodere in mano. Sappiamo già che molti la penseranno diversamente, ma per noi Alien: Romulus resta una buona occasione mancata. Due ore di divertimento, però, è in grado di offrirle se non si guarda troppo per il sottile.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità