Mountains May Depart: recensione del film di Jia Zhang-Ke presentato al Festival di Cannes 2015
Il secondo film in concorso oggi al Festival di Cannes
Tre segmenti, tre episodi, tre momenti temporali, tre formati diversi. Dal 1999 al 2025, passando per il 2014, e da un formato 4:3 al cinemascope, Jia Zhang-Ke racconta (ancora una volta) l'occidentalizzazione della Cina e preconizza i suoi prossibili sviluppi, seguendo le regole del melò e piegandole alle sue esigenze, lasciando che i suoi personaggi si passino progressivamente il testimone, perdendone alcuni e guadagnandone altri.
La prima parte di Mountains May Depart, nella quale Jia mescola tradizionalismo e sperimentazione, un triangolo amoroso si scioglie con una scelta forse sbagliata e con la partenza di uno dei due amici che si contendevano la stessa donna, mentre l'altro, capitalista in erba, sembra godere di tutte le fortune.
Nella seconda, la più tradizionale, il ritorno casa del perdente, gravemente malato, serve solo a scoprire le sorti di un'unione naufragata, con l'ex amata divorziata da tempo da un uomo sempre più ricco e sempre più senza scrupoli che si ritrova a passare del tempo con un figlio che le è praticamente sconosciuto.
E proprio quest'ultimo, oramai cresciuto e emigrato in Australia, sarà il protagonista di una goffa terza parte che flirta con la distopia allo scopo di indagare il futuro di un paese, di un popolo, di una cultura.
Un'andamento in discesa, quello del film di Jia, nel senso del calando ma anche in quello di un percorso lineare e ovvio verso un epilogo apparentemente inevitabile. Ovvio, soprattutto, fin da una sequenza iniziale nella quale si balla al ritmo di “Go West” dei Pet Shop Boys, suggerimento tanto sfacciato da non essere nemmeno più tale, fin dalla costante tensione tra i valori tradizionali e le tendenze centrifughe del capitalismo occidentale che trova nel segmento australiano una declinazione che conduce a un ritorno edipico e ideale verso le proprie origini, e i punti di partenza.
Delude, questo perdersi progressivo di Montains May Depart in quella che, al confronto con l'inizio, sembra quasi sciatteria, tanto formale quanto narrativa, e delude un po' la mancanza di spessore che volutamente Jia dà al cammino metaforico del suo film.
Rimangono però momenti di cinema molto efficace, e una fluidità di racconto che questa volta non ha l'asciuttezza dolente e la potenza ruvida de Il tocco del peccato, ma che si lascia scivolare mollemente sui binari di un melodramma al quale, nonostante il cammino dei personaggi, si torna come a una madre lontana, come a una terra dimenticata, come a gesti antichi ripetuti non più come abbraccio del futuro ma come carezza del passato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival