About Endlessness: la recensione del film di Roy Andersson in concorso al Festival di Venezia 2019
Un b-side, più malinconico e ruvido, del precedente Un piccione seduto sul ramo riflette sull'esistenza.
Si parla spesso di tableaux vivants, quando si vogliono descrivere il cinema di Roy Andersson e il suo particolare stile formale, che prevede il susseguirsi di scene piuttosto statiche, ritratte con la camera fissa, senza alcun movimento.
In realtà, soprattutto guardando questo suo nuovo About Endlessness, più che di pittura si dovrebbe parlare di modellismo; più che di di tableaux vivants, di diorami nei quali lo svedese mette in scena quegli squarci di vita - surreali, drammatici o apparentemente insignificanti - utili a portare avanti il suo discorso.
Un discorso che, in questo caso, è ancora più crepuscolare e rassegnato di quello del precedente film, Un piccione seduto sul ramo riflette sull'esistenza, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2014.
“È già settembre,” è la prima battuta pronunciata nel film da una donna, che contempla l’arrivo dell’autunno. “È bellissimo!” esclama verso la fine un altro personaggio dall’interno di un bar silenzioso, mentre fuori cade la neve, ed è Natale, e nessuno sembra dargli retta in alcun modo.
In mezzo, preti che hanno perso la fede, uomini che incontrano ex compagni di scuola che han fatto più carriera di loro, ragazze che ballano senza motivo, una donna cui si rompe un tacco e un uomo che tiene i suoi soldi sotto il materasso. E tanti altri personaggi ancora, che per Andersson stanno lì a raccontare l’assurdità della vita - e soprattutto, forse, della morte incombente - quell’abisso di infinita incertezza (endlessness, appunto) che riguarda il suo senso, e la sua eventuale prosecuzione.
Non è un caso, allora, che il regista faccia parlare tra loro due giovani studenti a proposito del primo principio della termodinamica, ipotizzando surreali nuovi incontri dopo la loro morte, sotto altra forma.
About Endlessness, in fondo, altro non è che un più malinconico e ruvido b-side del precedente film di Andersson, in cui si continua a riflettere sull’esistenza e dove si infilano nei vari quadretti che si susseguono riflessioni spurie e un po’ riciclate, forse scartate qualche anno fa. Perfino la paletta dei colori è sostanzialmente identica.
Ci sono guzzi, certo, ma a prevalere è un senso di generale stanchezza: che ben si adatta al tono generale del film, ma che dimostra forse che, questa volta, il regista non aveva in fondo poi così tanto da dire.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival